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«Opere e giorni di piccoli popoli aggregati dal vincolo religioso e di sangue, che hanno superato lo stadio di società strettamente parentelare e hanno maturato quello tribale, con emergenza di un capo-eroe. Non ancora però una società con potere politico di stato, ma poteri diffusi nella comunità, centro del vero potere. Se il nuraghe suppone e pretende un leader, per così dire "amministrativo" e "tecnico" per la scelta del sito, la gestione della costruzione, la garanzia funzionale di controllo del territorio, la tomba megalitica continua a rivelare, in quanto tomba collettiva, il potere comunitario». Così Giovanni Lilliu tratteggiava la società nuragica. Nel romanzo La tribù di Eligus Luigi Ruju da la sua risposta, in termini di reinvenzione narrativa di un passato mitico, affascinante quanto ancestrale, alle domande che numerosi studiosi da sempre si pongono sui nuraghi e sulle popolazioni che li abitavano: come era organizzata socialmente la civiltà nuragica? Quale la divisione del lavoro negli ambiti tribali dei clan? Chi si occupava degli scambi in ambito sardo insulare e fra la Sardegna ed il mondo mediterraneo? Era una società governata da nobili e principi oppure da capi eletti fra gli anziani - che Ruju chiama nuragus - ed aventi ciascuno funzioni di primi inter pares? Ha scritto Ercole Contu: «II carattere generalmente austero ed egualitario di questa civiltà sembra confermato dagli oggetti, che sono di uguale semplicità ed uniformità in qualunque monumento o situazione archeologica si rinvengano». Lance, asce, frecce, pugnali; guerrieri armati, donne, sacerdoti, pastori, contadini, artigiani. Tutte figure che affollano La tribù di Eligus e tratteggiano, come in una epopea della guerra, una grande civiltà del Mediterraneo.