La scrittura, o del desiderio
Rassegna stampa | La Nuova Sardegna | Dom, 23 Dicembre 2007 Non so quanto fondata sia la tesi, per altro molto diffusa, che registra, nell´ultimissima generazione di narratori, un azzeramento radicale di riferimenti al passato e alla tradizione: come se questi nostri giovani, soggiogati dal mercato e dalla ricerca del best-seller, si muovessero su un piano di mera orizzontalità, avendo fatto tabula rasa d´ogni memoria. Una cosa è sicura: a questo presente uno scrittore come Salvatore Mannuzzu non appartiene e non apparterrà mai. Arriva a confermarcelo adesso, se poi ce ne fosse bisogno, un libretto delizioso e d´assoluta verticalità, laddove il sostantivo sta proprio ad indicare un´estraneità antagonistica alla contemporaneità, dentro un dialogo febbrile e instancabile col passato, il grande passato dell´Occidente, che conta, almeno, su tre immani richiami: la Bibbia, il Don Chisciotte, tutta l´opera di Kafka. S´intitola, questo libretto pubblicato dalle eleganti Edizioni Della Torre di Cagliari, Giobbe, e raccoglie una materia varia, ma convergente nella riflessione su quelli che Mannuzzu individua come i due fondamentali requisiti della scrittura letteraria in quanto tale: «necessità» e «autenticità». Ecco, allora, il saggio che dà il titolo all´opera e che nasce come Lectio magistralis tenuta il 25 ottobre 2004 in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Lettere e filosofia da parte dell´Università di Sassari, seguito da Aliud pro alio, che è l´intervento dello scrittore a conclusione del convegno «Con anima, a tempo. Viaggio nella scrittura di Salvatore Mannuzzu», svoltosi nella stessa Università tra il 21 e il 23 del medesimo anno. Particolarmente suggestive - e folte di indicazioni - le due interviste già apparse su L´Unione Sarda del 13 novembre 2005 e «Lo Straniero» di aprile 2007: la prima di Maria Paola Masala («Mi sono un po´ stancato di me»), la seconda di Costantino Cossu («Discorso d´addio»). Infine «Due vecchie poesie», del 1950, e quella terminale «Come non detto», che prolungano, in versi, gli stessi temi, le medesime apprensioni, insomma la stessa temperatura. Credo si possa cominciare da qui, dalle parole che ricavo da «Aliud pro alio»: «Mi irrita sempre essere preso alla lettera». Da integrare con queste, che, in qualche modo, di quella irritazione, forniscono criticamente una spiegazione, affidate a Costantino Cossu: «Quando scrivo mi viene di partire dall´oscurità, da ciò che non so. Forse una storia si può raccontare in due modi: partendo da ciò che si sa o partendo da ciò che non si sa. Io parto sempre da ciò che non so». Son parole che vanno forse rivolte, diciamo così, anche all´io che vive: ma che hanno senz´altro una pertinenza decisiva su l´io che scrive. E restituiscono la migliore giustificazione che si possa dare a quella reticenza che già molti critici - eloquente reticenza, mi verrebbe da aggiungere - hanno segnalato per i romanzi del nostro scrittore. Una postilla: sono pochissimi gli scrittori italiani che possono vantare oggi una consapevolezza critica di alto livello su se stessi e così ben calibrata. Ne conoscevo un altro così, amico molto amato e perduto: Gesualdo Bufalino, conversatore irresistibile, di cui ora esce per Bompiani, e per l´ottima cura di Francesca Caputo, «Opere/2» [1989.1996]. Qualche esempio di tale consapevolezza? Eccolo, sul personaggio protagonista dei suoi libri e sull´importanza dell´invenzione del punto di vista nella sua narrativa: «Giudice di mestiere, spesso: forse si tratta d´un auto-dileggio (facendo coincidere il semel col semper); io mi diverto di queste sciocchezze. E certo mi piace il contrappasso d´immergere nella crisi di senso che vado raccontando un portatore deputato di senso». Non voglio dire, poi, quando Mannuzzu parla della sua aspirazione a creare «un testo composito al massimo», di scrittura come «esercizio di morte», di tecnica «musicale della variazione» e del gusto per «una certa tonalità», di letteratura come profanazione, laddove «la profanazione è la verifica del sacro». Ma torno al punto cruciale: che è la perfetta definizione di Mannuzzu come scrittore da non prendere alla lettera, laddove la lettera è qualcosa che arriva da una tradizione vetero e neotestamentaria dentro cui c´è ancora in giuoco la parola di Dio. Mannuzzu è uno scrittore novecentesco e del dubbio, ci mancherebbe: ma che scrive al cospetto dell´assordante silenzio di Dio. Epperò, se il parlare di Dio è anche un parlare della morte, del nostro destino mortale, a che altro pensare, se non a Dio? Se le cose stanno così - e lo si capisce subito che stanno così - quello della lettera, e d´una verità univoca e conciliata con se stessa, si palesa, per ciò stesso, come un miraggio se non addirittura come una mistificazione e uno scandalo. Che è poi la ragion d´essere di quella tecnica della variazione e delle molteplici strategie d´accerchiamento al Significato che, per Mannuzzu, resta tanto incommensurabile quanto ineludibile, in vista di un´idea di scrittura come «confessione reticente»: reticente, certo, ma sempre confessione. Posizione che, appunto, mette capo a Giobbe come il suo più vero eroe intellettuale: quel Giobbe che solleva la sua protesta contro Dio perché «ha un insoddisfatto amore della vita». In effetti: se il desiderio è, etimologicamente, nostalgia delle stelle (de-sidera) «da parte di chi le ha abbandonate», che altro è, la letteratura, se non desiderio? Massimo Onofri
Salvatore Mannuzzu Cagliari, Edizioni Della Torre 2007, pp. 96, Saggistica Euro 9,00
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