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La voce profetica di un «poeta di paese»

Press review | La Nuova Sardegna | Tue, 3 January 2006
Già nel suo poemetto precedente, «Il disegno», pubblicato nel 1998 dalla casa editrice nuorese Il Maestrale, in cui anticipava temi e motivi comuni poi a quello nuovo e fresco di stampa, «In una valle senza gigli» (Edes, Cagliari, 2005), del quale vogliamo occuparci in questa sede, Gigi Dessì metteva in gioco l´intero senso della sua vita, stilandone il bilancio sotto l´amaro imperativo categorico del dolore. Un dolore che si trasformava in fonte d´ispirazione, in grazia di quella misteriosa alchimia cui talvolta la sorte affida la parte migliore di noi stessi.
Ora, in questa nuova prova letteraria Dessì proietta tutta la sua personale concezione di un´umanità errabonda e peregrinante, alla ricerca di un senso della vita che valga la pena di essere vissuta non ipocritamente nel segno della croce. In ragione proprio di un´attitudine, di un solco o di una dimensione spirituale che potremmo a buon diritto definire «giobbica» e «agostiniana»: vale a dire di «contestazione» a Dio dall´interno della stessa devozione religiosa.
Un poeta, Gigi Dessì, che appartiene al filone orfico della poesia del Novecento - come ha ben rilevato tra gli altri Sandro Maxia. Un poeta, la cui lingua rientra nella koiné postermetica, il cui nume tutelare è Giuseppe Ungaretti. Un poeta anche e soprattutto etico-politico e religioso: che canta l´«ora sibillina», che ne intuisce il significato e la circostanza, e che oggi più che mai acutamente avverte e appunto perciò mai si perita di confessare il bisogno forte di un conforto e di una rassicurazione, provenienti non solo dall´interno del cuore ma anche dalle sconfinate lande del mondo esterno, «in partibus infidelium»: in quanto «sa di scrivere per non essere letto». Proprio come la vox clamantis in deserto. Un poeta che ha bisogno cioè di confermare a se stesso la propria identità, un´identità culturale anche geograficamente e storicamente connotata: nella convinzione appunto di essere soltanto un flatus vocis, ma un flatus di voce poetica, e di una voce poetica che non rinunzia a professare la propria isolanità.
Voce di uno che si autodefinisce «poeta di paese», oppure «naufrago del presente», un «proletario del verso» che ambisce «soffi di stelle», uno che «lega la sua storia alla fatica della strada». E che nondimeno anzi proprio per questo afferra il segno universale della catastrofe e dei mutamenti. Magari il giorno dopo quel fatidico «undici settembre», che per alcuni ha cambiato il destino del pianeta e per altri l´ha soltanto spettacolarmente ricacciato e ribattuto dentro al suo sempiterno inferno storico.
Il poeta allora decide di afferrare il Minotauro per le corna, e ha il coraggio di protestare virilmente, benché ancora raggelato e assediato dall´angoscia: «Che senso ha questo mondo sconvolto? Tu Dio non puoi distrarti con cherubini e serafini». Siamo al limite della blasfemia e dell´apostasia.
Il poeta non smette di elevare la sua protesta virile né cessa di rimproverare Dio a causa del destino di infermità che un inappellabile «disegno» ha inferto al proprio corpo e al proprio spirito, quasi a tradimento. Questo Dio, la cui immagine, nei versi e nelle pagine che abbiamo dinanzi, viene clamorosamente e provocatoriamente «quotidianizzata» - in maniera polemica ma anche confidenziale, secondo una sensibilità assai contemporanea - fino al limite della profanazione: «Ancora brividi segnano l´alba./ Uscire dal labirinto è stupore da sogno./ Dio? Si sta tagliando le unghie».
Questo libro vuol essere, nonostante tutto, un libro di «esemplarità», un umile testo «magistrale». Quasi un severo monito, un crucciato monito che ci rammenti come, nella caotica forsennatezza dei tempi, l´unico strumento di opposizione all´empietà della storia e al «legno storto dell´umanità» rimanga il messaggio e il retaggio etico della poesia. Poesia contro carneficina.
L´autore si fa dunque in qualche misura profeta o veggente dei destini individuali e universali. E lo fa con una coerenza di atteggiamento prospettico, perfino con un estremismo che sembrava dimenticato o sconosciuto fino a ieri alla consuetudine poetica dei nostri tempi.
Giova concludere con le parole di Giorgio Barberi Squarotti: «Questa raccolta di poesia è bellissima. I capitoli sono rapidi, essenziali, intensissimi, fra storia, memoria e religiosità, dolori e riflessioni del cuore. E il ritmo è netto, sicuro: così il discorso poetico si incide come assoluta lezione di verità».



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