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Identità, nel segno della madre

Press review | La Nuova Sardegna | Sun, 5 February 2006
La Edes ha appena pubblicato il romanzo di Gian Battista Fressura «Adda ´e riu» (301 pagine, 13,50 euro). Pubblichiamo uno stralcio della prefazione di Nicola Tanda.


di Nicola Tanda
I rappresentanti delle amministrazioni civiche di Cagliari, Sassari, Nuoro ed altri centri importanti, il 29 novembre del 1847 a Torino presentarono a Carlo Alberto la richiesta di parificazione del Regno di Sardegna con le province di Terraferma. Nel riceverli il ministro delegato fece notare che con quella richiesta essi rinunciavano a prerogative che gli Irlandesi rivendicavano da almeno tre secoli. Prerogative non rilevanti in termini di potere ma importanti sul piano simbolico. Da questo discendeva infatti la rappresentazione che i Sardi avevano di sé, su cui si basavano l´identità di nazione, la sovranità e l´autodeterminazione. Non trascorsero cinquant´anni che i Sardi ebbero modo di ricredersi e di comprendere quanto quella rinuncia fosse gravida di conseguenze. Era venuta meno infatti la cultura dell´autonomia del Regnum Sardiniae, quella attivata da Ignazio Mannu e Giommaria Angioy, che aveva prodotto la ´Sarda rivoluzione´ e che avrebbe continuato a favorire la consapevolezza dei valori rappresentati dalla cultura dei parlanti e degli scriventi in lingua sarda, su cui insisteva ed insiste l´asse semiotico della nostra cultura.
Il romanzo in lingua sarda «Adda ´e Riu» di Gian Battista Fressura ci dà ulteriore conferma del bilinguismo letterario sardo-italiano. L´autore appartiene a una generazione di sardo-parlanti che era «a rischio»; non è stato così per gli irlandesi, specie gli scrittori, che hanno sempre sbandierato alla coscienza occidentale il valore dell´identità come radice del futuro. James Joyce ha condotto, nel Novecento, un´operazione letteraria che ha rivoluzionato i procedimenti della forma dell´espressione e della forma del contenuto della narrazione. «Ulisse» è stato la Bibbia dei narratori moderni, a proposito dei valori che rappresentano il senso di appartenenza e lo spirito di avventura di cui l´Ulisse omerico è diventato archetipo. La sua scrittura letteraria ruota costantemente intorno a Dublino; Joyce concepisce Dublino come una persona e così la propone al mondo; la città è la sua patria. Ebbene, il romanzo di Gian Battista Fressura, «si parva licet componere magnis», vale a dire, come scriveva Virgilio, «fatte le dovute proporzioni», compie a mio avviso per la letteratura in Sardegna un tragitto analogo; un percorso di ricognizione del proprio vissuto che è anche presa di coscienza. Non ci può essere consapevolezza del «dasein», dell´esserci, senza senso di appartenenza; quel senso dell´identità proprio di ciascun individuo che Montale, anticipando i tempi della decolonizzazione, riconosceva ad Arsenio, personaggio simbolico di quella crisi. Arsenio, che rappresenta la Belle Epoque e l´inizio della fine della decolonizzazione, anticipa quella deriva umana dei continenti che solo ora verifichiamo sulle nostre coste meridionali e orientali, da Lampedusa all´Adriatico: «Giunco, tu che le radici con te trascini». Un ulisside Arsenio, un ulisside il sardo consapevole delle proprie radici e parimenti l´extracomunitario di oggi.
È stato principalmente il premio Ozieri con la successiva proliferazione di premi a indurre i poeti a scrivere e a stimolare la lingua poetica perché si facesse carico della prosa narrativa, andando oltre i procedimenti formali consolidati nei «contos de fochile» e nella fiaba, tentando un approccio alla letterarietà del racconto breve e del romanzo. Perciò il testo di Fressura si colloca bene nella collana «I quaderni della memoria» della Edes, che si propone di rendere esplicito il complesso rapporto che esiste in Sardegna tra lingua locale, vissuto e memoria. Il genere del romanzo, a mio avviso, come ancora in buona parte lo si concepisce, appartiene ad un passato in cui non esistevano cinema, radio, televisione. Per rispondere alle attuali esigenze di intrattenimento è divenuto più lento, seriale, in grado di macinare enormi quantità di pagine narrative dettagliate secondo scansioni spazio-temporali di impianto naturalistico. Il futuro della prosa narrativa è destinato invece alla reinvenzione e alla condensazione lirica del vissuto: in un flusso narrativo soggettivo e libero, nel «romanzo di formazione», nel racconto misto di storia e d´invenzione. Una forma narrativa, insomma, in cui la devozione per la lingua materna possa mostrare tutte le sue seduzioni e attrattive raggiungendo, fino all´identificazione, il vissuto di un pubblico mai veramente coinvolto dalla scrittura letteraria in italiano.
Fressura racconta una comunità del Goceano come fosse una persona, o meglio un insieme di persone: quella particolare comunità e non un´altra. L´universalità, difatti, è un universale concreto, non astratto, e si coglie solo nel particolare, in quei dettagli di vita che rivelano l´assoluto: scatta così il corto circuito della memoria involontaria proustiana: «Bastat unu fragu a bortas o unu sapore chi no intendias dae annos e ti torran a mente totinduna cosas betzas, cosas irmentigadas, logos, pessones, affettos, brullas, sas cosas de sa zente tua. Sas cosas chi imparas a appresiare a una tzerta edade, daghi sa betzesa de sas mamas avantzat e paret chi antizipet fintzas sa betzesa tua».
Sin qui la lezione di Proust e Joyce, ma anche dei poeti di Bono, in particolare di Antoninu Mura Ena, che compie una operazione letteraria di straordinaria modernità ed efficacia modellizzante, riportando la parola al suo senso originario: ad essere parola viva, pensiero poetante che aiuta a capire la vita del singolo e a riscattare quella di tutti. Gian Battista riceve l´educazione fornita dalla scuola, che contribuisce a farne un cittadino; ma ad educare i sentimenti, a fare di lui «unu omine» sono stati soprattutto la famiglia e la comunità. Per questo il suo racconto è romanzo di formazione: «Babbu insistiat a donz´ora chin sa raccumandassione de s´onestade, ma cantu fit dezisu in su propositu de s´onestade chin isse matessi, gai fit capatzu de zudigare chin misura sas disonetsades de sos atteros». L´identità, scrive Gian Battista, non si esibisce, ma si porta dentro di sé con ritegno, con la consapevolezza e l´orgoglio che, bella o brutta, è comunque «sa madrighe»; ed è qui la concordanza con l´operazione letteraria di Joyce e di Salvatore Satta: «Bidda tua est che a mamma tua etotu: siat comente si siat, est una ebbia e restat unica, no ti nde podes irventare un´attera. Bi nde podet aer piùs bellas, piùs allegras, piùs riccas, che podes istare attesu pro tempus meda, podes zirare mesu mondu, ti podes affetzionare a tantas atteras tzittades, ma sa chi est arraighinada intro de su coro est solu e sempre issa. E no b´hat peruna cosa chi ti che potat irvortare».
La comunità viene riconvocata quando Gian Battista accompagna la madre a visitare le tombe del cimitero. Là, dolorosamente e ironicamente ricorda ad una ad una le qualità umane delle persone conosciute, che fanno parte del suo vissuto e che con lui hanno costituito la sua comunità originaria: una specie di antologia di Spoon River; pagine di una infinita microstoria. E qui, con la figura della madre che rivive le vicende della sua vita, si chiude, come si è aperto, il racconto: «Como mama hat finidu de ammentare, como issa puru nd´est inoghe, intro de su libru de s´istoria: a palas a montes e a cara a campu, a unu passu dae Pabusi e dae sa Tanca Noa, in una carrela noa isposta a sole e a bentu, torra a paris chin babbu e chin sa zente sua».



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