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L´avventura del primo popolo sardo tra mito, storia e umane passioni

Press review | La Nuova Sardegna | Fri, 24 March 2006
Grazia Maria Poddighe, con «La Regina dei Shardana» (Carlo Delfino Editore, Sassari, 2005, pp. 90, euro 10), dopo «L´Ultimo inverno di Adelasia», riprende le fila del romanzo misto di storia e di invenzione, costantemente alla ricerca di un sapere che possa rivelarci il senso umano della misura e della moderazione, indispensabile per interpretare le feroci leggi di natura. Il romanzo verra presentato oggi, alle 17.30 nel salone di San Pietro in Silki, da Gianbernardo Piroddi nel´ambito di un ciclo di incontri dedicato alla narrativa sarda.
Nel libro il lettore è trasportato da un periodare serrato ed incalzante, analogico ed evocativo, in una dimensione sospesa tra storia e mito, realtà e sogno. E´ l´epoca del bronzo recente: la Sardegna, da sempre crocevia di popoli e di culture, è la terra dei Shardana. Qui sbarcano, chiamati dal loro capo Sherd, alcuni eroi achei reduci della guerra di Troia. Tra questi Dix, giudice assennato, e Med, guaritore di anime: il romanzo insiste, prima che sulle parole, sulle loro radici. Ai nuovi arrivati, il nurake ricorda la rocca di Micene. Non c´è nessuno ad accoglierli, solo il canto funebre delle prefiche: Sherd, l´eroe, è morto, ucciso dalla sua donna, Ashe, la regina che con saggezza ha governato per tutto il tempo in cui lui serviva il Faraone combattendo con i Shardana contro gli altri popoli del mare. Ashe come Clitemnestra e Medea? Donne lacerate tra l´essere e il dover essere, tra l´essere e il non essere; che vivono fino in fondo l´esperienza del dolore, finché in loro la passione travalica il segno della rassegnazione.
Ashe è la Gran Madre, la Dea della Natura e della Spiritualità, quella che per gli assiro babilonesi è Ishtar, per i Sumeri Nama, per gli Egiziani Iside, per i Fenici Tanit. Per lungo tempo ha soffocato la parte dionisiaca che è in lei, quella dimensione emozionale arcaica e primitiva che è la più vicina alla vita. Ora ha scoperto di non amare Sherd con l´intensità di una volta, si rende conto che i figli sono stati sacrificati dagli egoismi dei padri, capisce che ha dovuto essere madre e padre per i figli superstiti e, trascurata, ha dovuto andare avanti senza uomo e senza amore. Uccidere Sherd significa rivendicare i diritti dei figli, scegliere la continuità, raccogliere i brandelli della propria esistenza per poter rinascere alla vita e riacquistare coraggio, e con esso la capacità di rimettersi in relazione con la natura e col mondo e persino di perdonare. Significa ascoltare finalmente quella voce che in lei chiede pietà affinché aderendo in piena libertà alla dimensione interamente umana e terrena di madre, si possa abbandonare al flusso magmatico della vita, essere finalmente donna e non dea o regina. Ashe così può ascoltare il verbo del dio di Med, accingersi a sperimentare con lui, il perdono, la pietà e la paura connessa alla fragilità umana, sentimenti che, prima di lei, Sherd aveva conosciuto incontrando «l´uomo» della tribù di Mosè. Il racconto si conclude con questo nome, legato alle tavole della Legge: quella veterotestamentaria del Dio della Bibbia, che troverà compimento nella Legge perfetta, proclamata dal Vangelo.
In questo romanzo, la Poddighe ricostruisce (o costruisce?) l´universo mitico dei Shardana, impiegando una sintassi narrativa che ha la sua matrice in una lingua poetica asciutta e fortemente evocativa; sfronda gli aspetti già romanzati del repertorio narrativo, descrive e crea atmosfere interiori congeniali all´analisi della sintomatologia delle emozioni, poderoso leitmotiv della tragedia greca.

(Alessandra Carta)

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