Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
“Vieni a trovarmi anche il prossimo anno e, quando sarai nuovamente nel tuo Paese, parla bene della Sardegna!”. Sono le parole con le quali quasi ogni sardo si accomiata dal proprio ospite forestiero in partenza.
Il sentimento di queste parole colpisce Thomas Münster (1912-1983), giovane soldato tedesco che, per uno strano destino, incontra la Sardegna. L'aereo con cui sta lasciando la campagna d'Africa, durante la seconda guerra mondiale, precipita sulle montagne di Baunei. Miracolosamente egli si salva ma, colpito dalla malaria, è costretto a soggiornare nell'isola. Terminata la guerra, si stabilisce a Monaco, diviene ingegnere, studia storia dell'arte ed entra a far parte con i più famosi Grass, Böll, Johnson e Enzensberger del famoso Gruppe 1947, fondato da Richter.
Nei primi anni '50 ritorna in Sardegna più volte, e per lunghe permanenze, perché ora è affetto da ben altro male, quel “mal di Sardegna”, quel profondo sentimento di attrazione che gli si è insinuato dentro. Non a caso è noto il detto “Chi va in Sardegna, rimane in Sardegna!”.
Thomas Münster riporta le impressioni di questi suoi viaggi nell'isola in un diario, pubblicato in Germania nel 1958, a cui dà per titolo proprio quelle parole “Parlane bene”. Una frase che è la richiesta di un messaggio d'amore da portare oltremare, un'invocazione per rendere giustizia a un'isola, spesso, maltrattata e non compresa da visitatori frettolosi e superficiali ma, anche, vittima di una lunga tradizione di opinioni negative scaturite da lontane vicende storiche che l'autore ripercorre. I Romani, pur avendo assoggettato tutto il mondo allora conosciuto, non riuscirono, nonostante i poderosi eserciti impiegati, a penetrare quella fascia di terra sarda che è l'area montuosa del Gennargentu. Questa regione, battezzata dagli stessi Romani “Barbaria”, perché inconquistabile, finì per rappresentare una spina nel cuore dell'Impero.
Come la volpe della favola di Esopo “La volpe e l'uva”, essi iniziarono a svilire ciò che non erano in grado di soggiogare e coniarono persino il modo di dire “senza valore come un Sardo”. Secondo la versione data dai Romani, la Barbaria, l'attuale Barbagia, era un territorio del tutto privo di valore sui cui campi anziché messi crescevano pietre, ed i cui abitanti non servivano a niente e non si potevano utilizzare neppure come schiavi. Fu questa, secondo l'autore, la fonte di tutte le future leggende sarde e fu da allora che nella penisola si radicò la convinzione che la Sardegna fosse sinonimo di paura e di mistero. Il viaggiatore tedesco osserva l'Isola con gli occhi disincantati del cittadino europeo e ci racconta una Sardegna di oltre mezzo secolo fa che, a dispetto di tutte le leggende di sangue e violenza, è abitata da uno dei popoli più pacifici del pianeta.
Ogni sardo è disposto ad aiutare l'ospite forestiero, pure a discapito di se stesso, non esistono ladri e il banditismo è una forma di protesta politica al di fuori di un'indole malvagia. “Parlane bene” è un prezioso documento di quella Sardegna del dopoguerra, dove non è ancora del tutto scomparsa la figura del padre-pastore, figura regale di gran dignità a capo di una struttura familiare allargata, composta pure dai servi. È la terra dove si può ancora incontrare qualcuno che vive disinvoltamente in una grotta, con porta e finestre. L'autore racconta, stupito, la sua esperienza a Perfugas dove sei famiglie vivono all'interno di una cavità rocciosa e, persino, di un uomo che abita in una grotta sepolcrale punica, con un bel televisore e, pure, contrassegnata da un numero civico. E, con maggior sorpresa, osserva che, anche a Cagliari, e non sempre per indigenza, qualcuno ha scelto di abitare la necropoli punica di Tuvixeddu.
Münster cerca di capire la mentalità di questa gente che parla con orgoglio della propria casa di roccia, ereditata dai padri, da tramandare ai figli e convinti che nessun architetto possa costruirgliene una migliore e, libero da fuorvianti pregiudizi, descrive con brio questi aspetti curiosi. Ma accanto all'isolano che non vuole abbandonare antichi modi di vivere c'è il cagliaritano moderno che la sera ama passeggiare sotto i portici della via Roma, illuminati da caffè e negozi. Cagliari è, anche, la città dalla splendida spiaggia sabbiosa, gremita, in estate, di bagnanti annoiati che ascoltano la radio o sorseggiano bibite, al riparo dal sole sotto variopinti ombrelloni o all'interno dei numerosi casotti di legno. Al Poetto, da giugno ad agosto, l'alta società fa la bella vita nei rinomati stabilimenti balneari, vestita con abiti da spiaggia all'ultima moda, dove regna un'aria di noiosa mondanità che si conclude con serate danzanti.
L'autore percorre quasi tutta l'Isola, sosta nelle varie località, indugia nelle campagne e, con la passione che pervade chi sceglie per amore una patria d'elezione, si sofferma sugli aspetti della natura, sui caratteri delle genti paesane, coglie tradizioni, consuetudini e motivi storici, che gli permettono, poi, di ritrarre nel suo diario, in maniera affettuosa e quasi divertente, quella Sardegna antica e moderna degli anni '50.
Troppo facile classificarla come la nuova Cristiane F. dello “zoo di Berlino”. In realtà Monica Aschieri, in questo libro-diario che ripercorre la sua vita dal 1982 al 2003, racconta più un viaggio interiore che una nuda cronaca di droga che segnò la sua vita per vent’anni.
Proveniente da una famiglia “bene” di Cagliari, a 19 anni già madre di una bambina che verrà presto affidata ai genitori, girovaga per la città e l’Italia infiammata dall’astinenza e dal bisogno del metadone, affronta tentativi di recupero e struggenti e problematici rapporti con la famiglia d’origine. Tornata in Sardegna, Monica entra definitivamente in un giro di commercio e soprattutto di consumo di eroina e altre sostanze che la renderanno completamente schiava (tremende ma necessarie le descrizioni della devastazione fisica) e disposta anche a gestire il traffico quando il suo compagno, boss del quartiere CEP affiliato alla malavita nazionale, finisce in carcere.
I temi fondamentali del diario sono quelli classici della perdizione-redenzione: la discesa agli inferi, i rapporti di grande problematicità con la famiglia e con il padre descritti impietosamente, la continua richiesta di amore e considerazione che mina le fondamenta della sua personalità, il collasso fisico e psicologico e l’incontro con Dio e un’altra vita possibile. In tutto questo -una girandola di buchi, denaro, tentativi di disintossicazione, sangue e promesse non mantenute- le uniche cose buone sono la figlia lontana e il suo compagno, vera bussola della sua vita e personaggio complesso, fatto di luci e ombre.
La forma diaristica accentua il realismo della narrazione, ma rende difficoltosa la comprensione degli eventi: forse, sarebbe stata utile un’ appendice biografica vera e propria che aiutasse a collocare meglio i fatti. Anche così, però, il libro è sconvolgente e sincero, non soltanto una storia di droga, ma anche quella di un grande amore che dura una vita intera, interrotto soltanto dalla morte. Fortunatamente, il processo di perdizione si conclude con una lenta redenzione e persino con un avvicinamento alla fede che la porta a fare i conti con il dolore sofferto e provocato alla famiglia.
L’autrice, oggi disintossicata, e la sua famiglia sono molto conosciuti e il rischio è che la curiosità suscitata da una storia così forte e realistica, che oltretutto racconta una Cagliari “parallela”, metta in ombra il messaggio che, forse inconsapevolmente, la Aschieri vuole trasmettere: le persone non sono e non è possibile che siano soltanto “buone” e “giuste” o, all’opposto, solo “cattive” e la discesa all’inferno può avere anche un ritorno.
La volontà di raccontare in forma romanzata un periodo storico importante per la storia della Sardegna, insieme a quella -evidente- di restituire importanza e “attrattiva” ad eventi ancora non sufficientemente indagati, stanno alla base di questo romanzo di ambientazione storica, scritto dal commediografo e scrittore sassarese Giovanni Enna e pubblicato postumo.
La trama si dipana nel periodo giudicale della Battaglia di Sanluri del 1409 durante la quale le truppe aragonesi sovrastarono quelle del visconte Guglielmo di Narbona-Bas, ultimo discendente della dinastia di Arborea, il cui tesoro viene affidato a un drappello di fedeli sudditi perché lo portino in salvo. Nel loro percorso verso l’altipiano della Giara di Gesturi, i fuggitivi incontreranno diversi personaggi che cambieranno la loro sorte: in particolare, i giovanissimi membri della “confraternita della Giara”, una sorta di micro-società indipendente con regole proprie che resiste agli stranieri e ai locali che li vorrebbero schiavi.
Il libro ricorda Il Signore degli anelli di Tolkien e l’avventura alla ricerca dell’anello, con la differenza che stavolta il tesoro non va trovato, ma protetto durante un percorso che è metafora di una evoluzione personale e dei rapporti con gli altri. Anche in Fuga sulla Giara il viaggio permette ai protagonisti di scoprire la propria profonda umanità e quella dei compagni, così come hanno un significato funzionale la fuga dai “cattivi”, simbolo dell’oppressione individuale e di un intero popolo (quello sardo, il cui sentimento di identità è continuamente ribadito), le figure “classiche” degli anziani saggi, dei ragazzi irruenti selvatici ma buoni e perfino il piccolo paggetto che avrà modo di dimostrare tutta la sua perspicacia. È ovviamente presente anche un elemento fiabesco, di tradizione orale, impersonato dalla saggia Mammai Aleana in contatto con la Natura, ma anche il viaggio iniziatico dei ragazzi Pauledda e Lacu, la descrizione quasi sociologica (anche se non troppo approfondita) della società autonoma dei ragazzi sulla Giara la quale non ricorda quella malvagia del romanzo di Golding, Il Signore delle Mosche, quanto un primitivo e -pare di capire- sano ritorno alle origini dell’uomo.
Fuga sulla Giara possiede tutti gli elementi necessari a un buon impianto narrativo e una particolare attrattiva per chi vuole approfondire la storia della Sardegna.
Oltre il neorealismo, pur essendone ovviamente influenzato: questo è il Pablo Volta che raccontò la Sardegna della metà degli anni Cinquanta, rimanendone colpito come dal poema omerico. Il giovane fotografo arrivò in Barbagia per la prima volta nel dicembre del 1954 per poi ritornare in più occasioni e, in seguito, addirittura scegliere l’isola come sua residenza stabile.
Le fotografie di questo reportage, nato non “su commissione” ma per impulso proprio, non sono ritratti stilizzati, ma momenti di vita in movimento: talvolta le facce serie fissano l’obiettivo senza timore, mischiandosi a quelli che si coprono il volto con le mani, abbozzano un sorriso, continuano imperterriti a ballare nella piazza, sgozzare il capretto per la festa, lanciare la corda al mamuthone. In questo lo stile e il risultato finale di Volta appartengono al neorealismo: nell’arte che “si fa” in rapporto diretto con la società locale, con la mungitura della pecora, gli sguardi dei pastori, le fiere paesane e quello strano carnevale che sarebbe poi diventato uno dei più studiati e fotografati al mondo. Ai tempi circolavano molteplici rappresentazioni del Meridione, soprattutto di stampo antropologico o di denuncia sociale: lo sguardo di Pablo Volta le combina insieme nell’indagine di una realtà ancora poco conosciuta come quella sarda, aggiungendovi una personale propensione alla “fissazione dell’attimo”.
La staticità dell’atto fotografico è il riflesso del ritmo lento e “naturale” di un piccolo paese che non costituisce un semplice elemento etnografico-antropologico ma, semmai, dato storico. Orgosolo, Desulo, la Sardegna nel 1954-57 erano così: “…comunità pastorali del Mediterraneo che si incontrano leggendo l’Odissea” e il merito di Volta è quello di avere colto allo stesso tempo la loro verità e le loro potenzialità. Le fotografie del libro vanno guardate più di una volta per scoprirne la doppia o tripla vita: soggetti ritratti più volte nell’evoluzione di un’azione, come il bambino che si arrampica sul muro e, sotto di lui, le donne velate che rappresentano un’icona della tradizione e contemporaneamente (e modernamente) osservano i giovanotti in orbace che passano per la strada.
Il volume è curato da Tatiana Agliani e Uliano Lucas e le immagini sono accompagnate dai testi di Maria Giacobbe, F.Cagnetta, I.Kowaliska, D.H.Lawrence e Salvatore Cambosu.
Lo studio della storia sarda riguarda in maniera prevalente l’età nuragica e le sue manifestazioni archeologiche, mentre la storia delle famiglie nobili in Sardegna, che vissero il loro picco di stabilità e organizzazione nel secolo XVII, necessitava di uno studio “organizzato”.
Il volume di Francesco Floris e Sergio Serra è appunto uno studio moderno e sistematico della materia (i precedenti tentativi si ritrovano in alcuni manoscritti dei secoli XVIII e XIX), articolato in due parti principali: “Storia della nobiltà in Sardegna” e “L’araldica sarda” e corredato da un “Piccolo dizionario araldico”. Nella prima, scritta da Floris, viene analizzata la storia complessiva della nobiltà sarda e la sua funzione nelle società; la seconda, curata dallo scomparso Sergio Serra, è dedicata allo studio degli stemmi e delle armi nobiliari, con un adeguato materiale iconografico a supporto dei documenti.
Come sottolineato da Alberto Boscolo nella presentazione, “…la nobiltà sarda è stata una classe sociale complessa nella sua struttura, […] che ha svolto una funzione economica e politica notevole”. Dallo studio della sua storia e dei suoi simboli emerge, infatti, una classe sociale diffusa nel territorio (c’erano famiglie nobili praticamente in tutti i villaggi dell’isola), che traeva riconoscimento più dai “meriti” che dal “sangue”. Era costituita, a parte le famiglie “forestiere” catalane che peraltro si “sardizzarono” in fretta, perlopiù da proprietari terrieri, comandanti delle compagnie di miliziani, medici o avvocati che avevano ottenuto il diploma di cavalierato o di nobiltà come compenso per i lunghi anni al servizio della patria o del sovrano. Una nobiltà locale, dunque, fatta di sostanza che si traduceva nella forma, con stemmi che riproducevano simboli di ricchezza e abbondanza, fra i quali anche animali come il maiale o la vacca.
I “corsi e ricorsi” della storia si manifestano anche in una interessante caratteristica della nobiltà isolana: quella per cui fu proprio questa parte della società a tracciare il solco di una “coscienza nazionale” dei sardi che, in quanto “naturales” appartenenti alla “nazione sarda”, avevano diritto di ricoprire le cariche pubbliche con esclusione dei forestieri. Il volume, alla sua seconda edizione, è stato realizzato in seguito a un paziente lavoro di ricerca presso gli Archivi sardi, quelli della Penisola e presso l’Archivio della Corona d’Aragona a Barcellona.
Il tema più “alla moda” degli ultimi anni in Sardegna, ovvero la definizione dell’Identità (proprio così, maiuscola, come fosse una entità concreta) è anche il più “vischioso”, proprio in virtù delle sue molteplici sfumature. Ne discutono quarantatre “Scrittori sardi allo specchio”, fra cui Francesco Abate, Milena Agus, Bruno Tognolini, Franco Carlini, Maria Giacobbe, Alberto Melis, Luciano Marrocu, Marcello Fois.
A metà fra la saggistica e il racconto di sé e degli altri, gli interventi più interessanti e anche più utili ai fini della “missione impossibile” di definizione della sardità sono quelli che utilizzano lo strumento narrativo puro, perché ha fondamentalmente ragione Nino Nonnis quando scrive che “…la Sardegna è come le barzellette, non si deve spiegarla”. Soprattutto ai conterranei, verrebbe da aggiungere. Però facciamolo, perché è pur sempre argomento stimolante che può far guardare oltre il provincialismo delle infinite diatribe linguistiche, dello scimmiottamento di altrui costumi commerciali e stilistici, dei perché e dei percome dell’essere sardi, oggi. O si vorrebbe che fossimo sempre come ieri? Per fortuna ci sono anche i giovani che magari “non vogliono essere niente, ancora per un po’”, come l’anonimo (Giovane scrittore), o quelli che fondamentalmente sembrano chiedersi il perché di questa cosmica domanda (si veda il meditabondo Alberto Melis).
Il valzer delle domande parte dalla fisicità concreta della Sardegna come “tana” (Milena Agus) per arrivare allo sguardo particolare verso il mondo di Nicola Lecca, passando per lingua, lontananze, odori e ferite aperte, per elementi immutabili e altri in inarrestabile evoluzione, come il mestiere (o la semplice passione) di scrivere.
Possibile che esista una letteratura “sarda” in quanto geograficamente tale? E come definirne gli autori, per ius sanguinis o ius soli? E se sono nati sul suolo patrio ma non ci hanno vissuto (abbastanza), perdono il loro diritto alla qualifica? E se non ci sono nati ma l’hanno scelta come prima patria, magari vedendone le caratteristiche contraddittorie che al “vero sardo” sfuggono? Se poi ci si addentra nella tematica esplosiva della lingua, l’apparentemente oziosa questione (perché, diciamolo, è più materia per scrittori, filosofi, docenti e cultori della materia che per coloro che la vivono quotidianamente ed epidermicamente, la Sardegna) diventa terreno minato.
Ipotizzare che “la letteratura sarda (o “sarda”) possa avere una funzione orientatrice mai avuta prima”, come afferma Angioni, pare un eccesso di ottimismo; chi pratica un innato realismo, non particolarmente sardo ma comunque necessario, si limita a sperare che la discussione prosegua, in quanto l’individuazione definitiva della nostra specialità di abitanti della Sardegna è ancora tutta da raggiungere. Cartas de Logu ha comunque un grande pregio: offre delle possibilità. Offre spunti e materia su cui riflettere e anche un po’ polemizzare, non tanto per confermare quella caratteristica esistenziale immodificabile che rende i sardi “pocos, locos e malos unidos”, quanto per stimolare una discussione che si allarghi oltre i confini ancora troppo ristretti degli addetti ai lavori della cultura isolana.
Il volume, pubblicato a giugno dalla casa editrice Aipsa nella collana Portales, raccoglie gli interventi del convegno su Fabrizio De André svoltosi nel giugno del 2003 al teatro Nanni Loy per iniziativa dell’associazione Portales e del Dipartimento di Filologie e Letterature moderne dell’Università di Cagliari. Si tratta della raccolta dei contributi di diciotto studiosi e ricercatori di varie discipline, corredata dalla fotografie di Daniela Zedda.
Il saggio vuole offrire “…un approccio variegato alla corposa discografia di De André, proponendo una molteplicità di punti di vista”: perché De Andrè conteneva, per dirla alla Whitman, “le moltitudini”. Il volume si dipana dunque per i sentieri letterario, musicale, linguistico, religioso, e si articola in tre sezioni, Orizzonti, Percorsi e Variazioni, curate rispettivamente dai tre curatori del volume.
Nella prima sezione, Orizzonti, vengono presentati gli scritti che trattano in generale il rapporto tra canzone, letteratura e utopia in Fabrizio De André, mentre nella seconda viene indagato il rapporto vitale fra l’artista e la letteratura, con una particolare attenzione per quelle che sono chiaramente state le sue fonti di ispirazione: Edgar Lee Masters per l’album Non al denaro non all’amore né al cielo ma anche Bob Dylan, l’esperienza meravigliosa e terribile della Sardegna raccontata in Hotel Supramonte, e anche gli stili passionali e definitivi dei classici russi (si veda a questo proposito l’intervento di Simonetta Salvestroni che accosta De André a Dostoevskij nell’intervento dal titolo “De André, gli autori russi e il mondo contemporaneo”).
Nella terza sezione, Sanjust ha curato la parte più strettamente “musicale”, indagando i legami e le contaminazioni del cantautore-poeta (o viceversa?) e raccogliendo anche la testimonianza di Mauro Pagani, musicista polistrumentista, che ha lavorato per oltre un decennio con l’artista genovese.
Appassionato “saccheggiatore” dei codici popolari, delle culture e dialetti “altri”, De Andrè si è radicato nella cultura collettiva raccontando le “marginalità” (non a caso i sardi sono da lui avvicinati agli Indiani d’America), indagando il legame amore-morte e la guerra, utilizzando dialetti in funzione “anarchica” rispetto al potere costituito, lo stesso che ieri come oggi non può accettare che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.
Il tema dell’edizione 2008 della Mostra del Libro di Macomer è stato il futuro, scelta non casuale visto che ormai la consapevolezza della necessità di strutturare i percorsi della lettura fin dalla giovane età si è radicata in molti settori.
Le istituzioni - il Comune di Macomer e la Regione Sardegna - e le associazioni di categoria (gli Editori Sardi e i Librai sardi Indipendenti), le scuole e gli autori hanno lavorato in sinergia per dimostrare che un altro futuro, rispetto alle fosche descrizioni dell’Istat (venti milioni e 300mila persone, il 37% della popolazione di 6 anni e più non hanno letto neanche un libro nel 2005-2006 secondo la rilevazione del maggio 2006) è possibile.
La grandissima attenzione riservata alla scuola sarda come principale fucina dei lettori di domani sta trovando un positivo riscontro nelle politiche regionali di lotta alla dispersione scolastica e di sostegno alle biblioteche. A questo proposito sono numerose le richieste di finanziamento delle scuole già pervenute negli uffici regionali in seguito al recentissimo stanziamento di fondi per l’acquisto dei prodotti dell’editoria sarda. Macomer si conferma luogo di aggregazione e “centro” ideale (anche territorialmente) per la catalizzazione di eventi legati al libro.
In occasione della Mostra sono stati organizzati non soltanto uno spazio riservato ai bambini all’interno delle ex Caserme Mura, ma anche una serie di eventi collaterali tra cui tavole rotonde, incontri con gli scrittori sardi e con gli esperti nella produzione di eventi culturali, come Pierluigi Sacco, editori di rilievo nazionale, quali Minimum fax e Fanucci. Di particolare interesse, durante la manifestazione, si è rivelato l’incontro La produzione letteraria in lingua sarda: un fenomeno sotto traccia, al quale hanno partecipato Antoni Arca, Francesco Cheratzu, Salvatore Fozzi, Gian Gavino Irde, Paolo Pillonca, Nicola Tanda, Salvatore Tola. Il tema trattato è stato quello dell’importanza, spesso non sufficientemente rilevata, della letteratura in lingua sarda come parte fondante del bagaglio culturale dell’isola.
Francesco Cheratzu (Edizioni Condaghes) ha ipotizzato un futuro in cui la specificità culturale isolana potrà essere riconosciuta a livello mondiale, attraverso il simbolo più importante per un libro in commercio: il codice ISBN, ovvero il numero posto di solito sopra il codice a barre in copertina, che identifica univocamente un titolo (composto dapprima da 10 cifre, ora dovrà essere adeguato a 13).
Ma l’appuntamento di Macomer porta anche buoni affari: “Le cifre - dice Mario Argiolas, ex presidente dell’Associazione degli editori sardi e ora a capo dell’Ufficio Studi dell’AES - sono molto buone. Il numero dei visitatori dello scorso anno (ventimila) è stato ampiamente superato. Le vendite dei libri sardi registrano un 30% in più. Anche i librai indipendenti hanno venduto molto bene, sia i libri della piccola e media editoria di qualità sia i libri per ragazzi”.
Il bilancio è dunque positivo e va nella direzione intrapresa dalla Regione Sardegna che è quella di una decisa valorizzazione della cultura in tutte le sue forme, da perfezionare in alcune parti (come la nuova legge sull’editoria), ma nel suo complesso rispondente all’ esortazione di Antonio Gramsci: “Istruitevi, istruitevi, istruitevi”.
“Morte de unu presidente”, su triballu ùrtimu de Zuanne Franziscu Pintore, contat de un imbòligu de fatos trulos chi capitant a fine istadiale, in una bindighina de dies bascosas.
Ddu at unu mistèriu chi imbrutat sas fèrias alligras de una tropa de piztocos e pitzocas, zente de importu de sa politica sarda e amigos issoro: a Nenardu Angioni, presidente de su Guvernu sardu, dd’ant atzapadu, mortu, in su dominàriu de Istene Demaias, su cabu de su parlamentu, e a Annesa Iserrai, sa pobidda de Demaias, dda ponent in presone.
Si cumprendet subitu chi, a mesu de sa chistione, mancari a mala gana, si che atzapat imboligadu Nurai puru, giornalista sardu de unu cotidianu italianu, ca sa sorte che ddu ogat a imbistigadore. A bellu a bellu sa cosa resultat prus difìtzile de su chi si potzet crèere. Su letore non podet pentzare male de Nurai, ma totu s’atera zente chi nde essit a campu in s’istoria abbarrat misteriosa finzas a sa fine. Su contu est bellu tesu fintzas a s’acabbada, ca s’autore atzunghet, in ognunu capìtulu, a sa fidada, arcanos noos.
Si cumintzat de unu logu de mare, ma a bellu a bellu sa cosa si chet ispraghet, paris cun sas trassas chi si che avvolotant e cun sa zente noa chi nde essit a campu. Fintzas a cando s’imbòligu cummintzat a si che immanniare e iscumpassende sas làcanas de s’isola nostra, che arribbat a s’Itàlia.
Calincunu at nau chi custu est unu contu de fantapolìtica. E sos de fantapolìtica sunt mescamente una zenia de libros ambientados in tempos benidores: ma sa de su contu, mancari sa situatzione polìtica siet assolutamente diferente, diat essere una realidade chi si podet dare. A fàere custu, meda azuat sa limba, ca Pintore dda manizat bene meda, e ischit zare a personagios e trassas profundidade e beridade.
Si agradat puru su abrìtiu de Pintore, a iscrìere in LSC, ca ammustrat ca si podet iscrìere in sardu binchinde sos problemas de grafia e fintzas chentza de che fàere pèrdere a sa limba sa fortza sua. Su chi nde essit est cosa bene fata, po sa limba puru. E Pintore rennesset, chentza chi si nde abbizemus, a si che leare propriu incue inue depet acabbare unu bellu contu “giallu”: inue no aiamos pentzadu de che arribbare.
Ovvero come raccontare i grandi personaggi della storia ai più piccoli, “semplificando” una figura quasi mitologica come quella di Antonio Gramsci attraverso la rilettura fiabesca delle celebri Lettere dal carcere. Per una “legge del contrappasso” buona e “al contrario”, la vocazione pedagogica di Gramsci viene pienamente espressa attraverso le lettere scritte nel periodo terribile delle detenzione, in cui la parola scritta era l’unico punto di contatto con il mondo e gli affetti: la moglie, i figli piccoli, la cognata Tania e la sorella Teresina, nonché la madre e i fratelli.
L’impostazione educativa di Antonio Gramsci, fondata sul primato della “forza di volontà”, l’amore per la disciplina e il lavoro, non è rivolta al bambino in maniera coercitiva e artificiale; egli si rivolge innanzitutto agli educatori, che hanno bisogno, loro sì, “di essere educati”, soprattutto in relazione alle maggiori difficoltà che le bambine incontreranno nel loro percorso di vita (lettera a Giulia del 21 novembre 1927, a Tania del 30 aprile 1928, e successivamente a Carlo e Teresina).
Uno straordinario messaggio di riconoscimento della personalità del bambino, della parità fra i sessi e anche di femminismo ante-litteram, nonché un segnale importante per gli adulti che si accosteranno a questo libro per spiegare ai piccoli lettori (l’età consigliata è dai 7 anni in su) il significato e il contesto storico e umano di ogni fiaba. Antoni Arca compie un eccellente lavoro di veicolazione dei messaggi del pensiero gramsciano, come quello della solidarietà e consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni (ne “Il topo e la montagna”), del “pessimismo della ragione e di ottimismo della volontà”, soprattutto nello studio (nelle lettere alla madre dell’agosto del 1931 e del 1932 ad esempio, sollecita una maggiore attenzione alle cose del mondo, anche quello piccolo di Ghilarza), e della realtà e accettazione dell’imperfezione fisica (l’Antonio-Nino protagonista è un piccolo uomo un po’ gobbetto); correttamente non viene nascosto o edulcorato, ma spiegato, anche il Gramsci padre, lontano fisicamente ed emotivamente dai piccoli figli (“Babbo Babar”).
“I racconti di Nino” è un ottimo libro per i ragazzi, più “pedagogico” che didattico, ma anche per gli adulti, che vi ritroveranno il pensiero di uno dei più importanti intellettuali del Novecento sintetizzato, tradotto con semplicità, quasi un punto di partenza per chi volesse cominciare a conoscere Gramsci.
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