Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Come è nata l’idea del romanzo?
Il romanzo nasce da una profonda passione per l’Archeologia; il ricordo più antico che ne ho riguarda lo stupore con cui, da bambino, guardando la TV degli anni ’60 scoprivo l’epica Omerica dell’Odissea (con Bekim Fehmiu, Irene Papas …). L’incontro con i Nuragici è avvenuto, stranamente, non tanto attraverso le costruzioni megalitiche quanto con l’ammirata scoperta dei loro manufatti e delle armi di bronzo, in una uggiosa mattinata ginnasiale spesa in visita al Museo di Nuoro. Poi la visita, circa vent’anni fa, a un villaggio con fortezza ancora praticamente inesplorato (che poi è diventata la patria di Tholis, il protagonista antico): è stato il punto di svolta, con la decisione di narrarne le possibili vicende. Quindi, circa quindici anni fa, la nascita della trama e dei protagonisti, solo immaginati sino all’inizio della scrittura nell’autunno del 2004. Il tutto intessuto con la commistione tra cultura umanistica e tecnologica, e lasciando nella trama tracce di alcune cose amate da me e dalla mia generazione (citazioni, richiami, suggestioni o vere e proprie “Easter eggs” – sorpresine lasciate dall’autore nel fluire della trama, riconoscibili se ne è noto il codice…).
Con quale volto lei immagina i personaggi principali del libro?
Bella domanda! In realtà il romanzo l’ho scritto descrivendo le situazioni che immaginavo, in qualche modo “vedevo”, prima ancora di dare corpo al testo. Quindi i personaggi, anche quelli secondari, per me hanno un aspetto ben preciso. Senza voler togliere al lettore il gusto di immaginarli per proprio conto, comunque, diciamo che Tholis, il protagonista nuragico, sta tra Kim Rossi Stuart e Orlando Bloom, mentre i panni di Gianni Mele, l’archeologo del prossimo futuro che scopre la tomba inviolata, li vedo bene vestiti da Raul Bova. Certamente una splendida Lucia Marras (l’archeologa Sassarese) potrebbe avere il volto di Barbara Bobulova, mentre Giorgia Laconi, la giornalista, è senz’altro Elisabetta Canalis! Infine Olai, il secondo protagonista della vicenda antica: con un po’ di capelli in più, potrebbe essere Luca Zingaretti.
Quanto c’è di autobiografico nel romanzo?
Molto. Gianni Mele è diventato, nel corso della scrittura, il mio Avatar archeologo (nella vita reale sono un ingegnere che si occupa di tecnologie dell’informazione e della comunicazione), e chi mi conosce sostiene che spesso parli proprio come me… mentre l’altro protagonista, Tholis, è diventato via via più epico mentre il suo personaggio, il suo carattere prendevano corpo; mi piacerebbe avere un nipote come lui, con una vita certamente meno travagliata! Inoltre, le sensazioni e le immagini legate ai luoghi: ho cercato di descrivere quelle che ho provato io stesso nel visitarli; le antiche leggende sono quelle che ho appreso da mia madre e dagli anziani custodi della memoria, che le tramandavano in modo orale, come facevano i nostri antenati.
Per cosa vorrebbe che fosse ricordato il suo libro?
Mi piacerebbe che fosse ricordato per aver contribuito a ridare vita e spessore ad un antico, fiero popolo. Per averci riavvicinati alla loro umanità, a quella parte di loro che ancora vive in noi. Per aver contribuito a far sentire la nostra gente isolana si, ma un po’ meno isolata, e meno che mai schiava di un antico e immutabile destino. Per aver stimolato e incuriosito i lettori, soprattutto quelli più giovani, spingendoli ad approfondire le loro conoscenze sui nuragici visitandone i siti e passeggiando per i musei, cercando di immedesimarsi con la loro vita quotidiana. Magari, per aver seminato una piantina che potrebbe fiorire con qualche futuro, grande archeologo… Troppe ambizioni? Chissà.
Il suo libro “Sante & Sciamane” racconta le “cose di donne”, le esperienze più intense dell’universo femminile, come la maternità. Ha tratto ispirazione più dallo studio e dall’osservazione o dalla sua esperienza personale?
Nonostante dall’età di vent’anni io abbia sempre lavorato nel campo artistico, sono una donna che ha vissuto la maternità e la cura della casa e della famiglia come attività principale della propria esistenza, proprio come accade a moltissime altre donne. La differenza sta nel fatto che ho sempre una visione artistica della realtà e in tutto ciò che faccio e che vedo fare dagli altri, osservo e analizzo le analogie e le differenze per trarre un insegnamento che possa essere utile a me stessa ma possa anche essere comunicato in forma artistica e sia dunque utile anche agli altri.
Secondo Lei esiste davvero il sentimento della “sorellanza” fra donne o è vero piuttosto che la competizione è sempre spietata, in ogni ambito della vita, più che fra gli uomini?
Si può parlare piuttosto di solidarietà tra donne finalizzata al miglior rendimento del servizio che la donna un tempo rendeva alla società: l’iniziazione ai misteri della riproduzione, il parto, la cura dei bambini; oggi questo manca per via dei mutamenti sociali. Essendo oggi diventata la donna un soggetto sociale, e non un oggetto, come individuo la donna sta scoprendo la sorellanza così come gli uomini scoprono la fraternità; ma questi sono valori che dobbiamo ancora conquistare. Fino a che l’obiettivo dell’individuo sarà il potere, esisterà la competitività. Comunque questa è sempre stata notoriamente maggiore tra le donne, forse perché gli uomini sulla piazza sono sempre stati numericamente inferiori alle donne.
La donna “moderna” ha perso un po’ di quella magia “ancestrale” che le derivava dalla sua unicità rispetto al maschio, che anche per questo la rispettava? La parità dei sessi, insomma, secondo lei ha nuociuto in qualche modo al mistero femminile?
I misteri sono scomparsi tutti. Apparentemente. C’è stato un appiattimento dato dall’illusione che la scienza ci possa spiegare tutto. Infatti è così, solo che bisogna intendersi su ciò che è veramente scientifico. Spesso per pensiero scientifico si intende pensiero materialistico che non è certo l’unico metodo di indagine possibile. Ci sono donne che ancora mantengono un contatto con lo spirito del mondo e della natura, che usano quella particolare sensibilità dell’essere femminile derivata dalla familiarità con la generazione della vita. Se vogliamo chiamiamola magia io parlerei piuttosto dello sviluppo particolare dei sensi e della percezione in genere. Io direi che ieri la donna veniva rispettata a patto che stesse al posto suo. Oggi è temuta perché invade gli spazi tradizionalmente ritenuti maschili; il problema rimane: qual è il posto della donna, e quale quello dell’uomo?
Cosa c’è di uguale e cosa di diverso fra le donne di venti anni fa e quelle di oggi? Sono ancora quelle donne che affascinavano D.H. Lawrence, “con la schiena dritta e i pugni duri”?
Certamente in Sardegna è così. Noi sarde siamo orgogliose, a volte troppo…
Quali sono i suoi progetti in corso e quelli futuri?
Continuare ad occuparmi della differenza di genere, adesso sono alle prese con il progetto Deinas (oracoli) insieme a Rita Atzeri del Crogiuolo. Stiamo divulgando nelle scuole in questi giorni, i risultati di una ricerca etnografica realizzata sul campo da Marco Lutzu e curata dalla società Sarditinera per la Provincia del Medio Campidano. Questo progetto intende avvicinare i ragazzi alla conoscenza della poesia estemporanea in lingua sarda e prevede da parte mia(insieme a Simon Balestrazzi) anche la realizzazione di un disco con la riproposta di alcuni brani musicali in una rielaborazione personale.
Che messaggio vorrebbe fosse colto dai lettori del suo libro?
Vorrei che si considerasse il passato con obiettività recuperando ciò che ancora ci può essere utile, e in particolare che le donne ragionassero sulla differenza di genere accettando la loro specificità. Auspico che la donna coltivi la sua sensibilità particolare in senso sociale per continuare ad essere in modo attuale un esempio nella cura del mondo.
Tornare a vivere e lavorare in Sardegna, studiarne le tradizioni, sperimentarne le possibilità espressive: tutto questo ha influito positivamente sulla sua creatività? E quali differenze ha trovato rispetto alle esperienze fatte “al di là” del mare?
Tornare qui è stata una tappa obbligata del mio personale percorso di crescita. Lo studio delle tradizioni mi permette di prefigurare nuove prospettive per il futuro della Sardegna e non solo. Mi ha dato un grande impulso creativo anche se non sempre quello che cucino trova appetiti adeguati. Forse al di là del mare c’è più appetito e maggiore spregiudicatezza. In Sardegna gli schieramenti di potere sono molto netti, ed io per scelta sono fuori da questi schieramenti.
Perché ha parlato solo delle donne sarde? Cosa le differenzia dalle altre che ha conosciuto?
Le donne sarde sono speciali perché la nostra società in genere che è molto conservativa, ci mostra sopravvivenze di comportamenti e di valori che altrove vanno scomparendo rapidamente. Per esempio l’attaccamento alla terra e l’interesse per la ritualità.
Da cosa nasce l'idea del romanzo “Vita e morta di Ludovico Lauter”?
Ho trascorso un anno intero a Cala Liberotto. Lavoravo a Nuoro e viaggiavo in macchina ogni giorno. Avevo molto spazio, e la libertà di pensare. Mi è venuta in mente questa storia in modo molto naturale ed è stato molto bello scriverla. Desideravo provare a ricreare un intero mondo, con molti personaggi, intrecci complessi, emozioni, dolore, odio, amore, pietà. Volevo lasciare completo e libero sfogo alla fantasia. L’occasione non poteva essere sprecata.
Quali sono gli autori che l'hanno maggiormente influenzata?
Senza dubbio Elsa Morante e Thomas Mann sono le presenze più esplicite di questo libro, sono quasi dei fantasmi che inseguo e coi quali provo a giocare. Credo sia molto importante avere modelli alti, aspirare a grandi cose, altrimenti si rischia di accontentarsi di piccoli fallimenti. La letteratura comporta un certo fattore di rischio. Bisogna mettere in gioco grandi cose. Oltre a questi due magnifici scrittori ho una venerazione per “Il giorno del Giudizio” di Salvatore Satta, per me uno tra i libri più belli che siano mai stati scritti. E poi George Orwell, Joyce Carol Oates, Coetzee, Natalia Ginzburg, Alberto Moravia, Kafka, Soldati, Annamaria Ortese. Non c’è un filo logico, solo un grande amore per la lettura. L’anarchia nei gusti letterari è una grande risorsa. Alcuni scrittori diventano un modello che si cerca di imitare, altri restano una controparte irraggiungibile.
Cosa rappresenta per lei la figura di Ludovico Lauter?
Il mostro dell’ambizione, il narcisismo che chiude gli occhi al mondo. Ma anche il mostro che bisogna evocare ( e poi sopprimere) per poter creare un romanzo ambizioso. Vita e morte: vita della letteratura, morte del narcisismo. Bisogna creare un Ludovico Lauter, lasciarsi trasportare da lui, ma poi saperlo uccidere prima che ci rovini.
Come si pone invece verso la più controversa figura femminile del romanzo, Giulia, madre di Lauter? Giulia è una donna che ama l’arte per l’arte, senza secondi fini. Tuttavia è lei la prima colpevole del narcisismo del figlio. È la persona che lo ha rinchiuso nel suo piccolo mondo, un mondo nel quale contava solamente il loro immaginario. Lei è, per molti aspetti, una specie di selvaggia, fragile, tenera, ma anche Giulia è egoista, come il figlio. Anzi è il modello, la fonte dell’egoismo del figlio.
Che significato ha, per lei, la scrittura?
È innanzitutto un piacere enorme, la possibilità di migliorare la propria vita, acuire la propria sensibilità. Fare, sognare e pensare cose che normalmente non potremmo raggiungere. Per questo a me piace la letteratura un po’ sopra le righe, quella che ti fa vedere le cose dall’alto, o dal basso, ma mai al livello esatto della realtà. È strano, ma è proprio uscendo dalla realtà che la letteratura permette di innalzare il livello di comprensione della vita. La letteratura è per me, innanzitutto, amore per la vita, voglia di vivere.
Ha in progetto nuovi lavori?
Ormai ci avviciniamo all’uscita del secondo romanzo. È passato quasi un anno da Ludovico Lauter. Il secondo libro sarà ancora pubblicato dal Maestrale e sarà molto diverso dal primo. Entro il 2008 poi Gallimard pubblicherà in Francia “Vita e morte di Ludovico Lauter”.
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