Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
«Il passato è un inganno che ritorna, un tormento, un film che si ripete dentro la mia testa, sempre uguale, come una malattia insidiosa. Una malattia che mi vuota e mi stanca, e che mi ha guastato il cervello. Una malattia che mi ha portato qui, alla Casa Matta, così la chiamiamo noi». È così che ha inizio la narrazione di Oreste, l’io narrante di Vicolo Rosso, ultimo romanzo di Augusto Secchi edito da Condaghes. Lasciandosi cullare dal flusso dei propri ricordi, resi ancora più intensi da una malattia che «scolora le immagini più recenti e tinge di particolari un passato che credevo sepolto», Oreste rivive e condivide un passato storico e personale nostalgico, fatto di rimpianti e sogni svaniti di cui ormai rimane solo una bandiera e una porta murata in Vicolo Rosso, troppo “periferico” rispetto ai luoghi da cui giungevano decisioni e linee da seguire.
Le storie dei compagni Sergio e Stalin, del Profeta, pronipote di Michele Schirru, dell’insolito poeta Giambo e del giovane rivoluzionario Evelino creano un intreccio tra la storia e le loro singole esistenze che confluiranno in un comune declino cullato da ricordi fatti di nostalgia, amarezza e rimpianti per quell’occasione perduta che avrebbe potuto cambiare il corso della storia. A fare da sfondo ai percorsi dei singoli personaggi e a caratterizzarne gesti e umori, c’è Berlinguer in un indimenticabile comizio con gli Inti-illimani, il Gulag e un libro «aperto sull’ultima pagina, le ultime righe sottolineate con tratti forti di matita» lasciato su un tavolo del bar di Stalin, la svolta della Bolognina e la decisione di cambiare il nome al partito, il muro di Berlino e la sensazione di «essere incantati dal nostro stesso fallimento, dal fallimento dei nostri ideali, della nostra storia».
Con il suo romanzo Augusto Secchi dà vita a un flusso di ricordi che costituisce un percorso politico, storico ed emotivo da cui trapela la nostalgia di una coscienza politica che era anche passione e che oggi sembra essersi perduta. Ne è la prova il fatto che insieme ai sogni e agli ideali decadono anche i personaggi, non in grado, o meglio non desiderosi di appoggiare quella “svolta”. Tale flusso, a metà strada fra il monologo interiore e il dialogo con un interlocutore la cui presenza è avvertibile solo nelle parole di Sergio, trova espressione in un linguaggio volutamente lontano dallo standard. Vicolo Rosso cattura l’attenzione del lettore coinvolgendolo in un’atmosfera che lo porterà in un turbinio di riflessioni su declini e debolezze, amicizie, coerenza e messa in discussione della propria sfera privata per ideali politici. «Dove sono gli ideali e i sogni che mi facevano piangere quel giorno ascoltando gli Inti-Illimani e Sergio e Berlinguer abbracciati?». Forse è proprio questo che il lettore si chiederà posando il libro.
Definita dai suoi abitanti la “piccola Parigi”, probabilmente perché per diversi decenni una società francese ne gestiva la miniera o perché la sua bellezza non è inferiore a quella della capitale francese, Buggerru, pur essendo un paese di recente formazione, occupa un posto di notevole importanza nella storia italiana.
Tre statue di trachite rosa, distese a terra sulla grande aiuola della piazza, sono l'opera con la quale Pinuccio Sciola, in occasione dell'ottantesimo anniversario, ha voluto rappresentare il simbolo del tragico eccidio dei minatori che, nel 1904, pose Buggerru, a buon diritto, protagonista nella storia del movimento nazionale operaio.
Quel tragico evento di sangue, in cui persero la vita i minatori Felice Littera, Salvatore Montixi, Giovanni Pilloni (colpiti dalle pallottole dei militari) e Giustino Pittau che morì successivamente in ospedale (per complicazioni dovute alle ferite riportate), non ispirò solo la scultura ma anche la poesia e la pittura.
Significativo il passo «Sardegna! Dolce madre taciturna. Non mai sangue più puro e innocente di questo ti bruciò il core», tratto dall'ode “I morti di Buggerru” di Sebastiano Satta.
Ma altrettanto importanti sono le opere di Giovanni Canu e Giovanni Nonnis che dipinsero due oli ispirati al tragico epilogo dello sciopero del 1904. Romano Ruju, invece, volle rievocare i fatti di Buggerru con l'opera teatrale “Quel giorno a Buggerru”.
È evidente che gli idealisti, gli animi più puri, non restarono insensibili di fronte a quel sacrificio di vite umane per condizioni di lavoro più accettabili, in una già triste realtà fatta di pozzi e gallerie, di oppressioni morali e sfruttamento. Già agli inizi del Novecento i minatori erano organizzati sindacalmente e a Buggerru la direzione della Lega era stata affidata, nel 1903, al romagnolo Alcibiade Battelli (ancora oggi, quello che fu il suo ufficio, nella via principale del paese, riporta la dicitura, quasi scomparsa: “Lega minatori”), ma i tempi non erano ancora maturi per la contrattazione degli interessi dei lavoratori su un piano di parità con la classe padronale. È chiaro che la Lega fu ostacolata, fin dal suo sorgere, dalla Società francese Malfidano (La Societé anonime desmines de Malfidano), proprietaria dei pozzi di Buggerru, poiché riteneva quella unione di lavoratori, una opposizione organizzata alla sua politica di produzione e di sfruttamento.
In quel fatidico pomeriggio del 4 settembre scoppiò la rivolta, dopo due giornate di sciopero nato spontaneamente, non programmato dalla Lega dei minatori, per l'imposizione del direttore della miniera, l’ingegnere Achille Georgiadés, dell'orario lavorativo invernale a partire dal 2 settembre, anziché dal 1° ottobre, come era consuetudine. Da tempo tra i lavoratori serpeggiavano il malcontento e i malumori; i dissapori erano vecchi e la sopportazione era giunta al limite e, da semplice protesta espressa con timore, il passo per l'irruente ribellione fu breve.
I capitalisti francesi, proprietari della miniera, pretendevano di dettare legge in una terra che intendevano colonizzare e sfruttare fino all'ultimo grammo di minerale. Il salario era esiguo, nemmeno la metà di quanto prendeva un minatore negli Stati Uniti; le ore lavorative erano troppe e mal distribuite, si lavorava d'estate nelle ore di maggior calura e all'esterno della miniera; esisteva, inoltre, il ricatto continuo del licenziamento e della perdita della casa che veniva data in affitto dalla società mineraria.
Gli operai erano, per di più, quasi obbligati a rifornirsi di tutti i generi alimentari in uno spaccio gestito dalla stessa società francese che li provvedeva di libretto, buoni di acquisto e possibilità di dilazione nel pagamento. La vita girava attorno alla Malfidano che, pur con agevolazioni ai lavoratori, aveva organizzato un giro vizioso del denaro che rientrava pur sempre nel suo bilancio.
In quel clima di forzato mal vivere la ribellione sfociò spontaneamente e il 4 settembre, per una banale rivalsa all'orario di lavoro, tre uomini persero la vita sotto i colpi dei fucili dei soldati della 42a fanteria cagliaritana (arrivati la mattina di quella tragica domenica con la speranza di porre ordine senza spargimento di sangue). I minatori, esasperati, avevano colpito con delle pietre le guardie, la tensione della conflittualità esacerbò tutti e dalle armi dei soldati partirono dei colpi.
A seguito di questo drammatico fatto i lavoratori italiani, guidati dai socialisti rivoluzionari, proclamarono il primo sciopero generale italiano. Per quattro giorni ampie fasce di lavoratori italiani incrociarono le braccia: diversi giornali non uscirono, parecchie fabbriche si fermarono e persino i gondolieri a Venezia fermarono le loro gondole.
Agli inizi del Novecento Buggerru contava circa 8500 abitanti (oggi ne ha poco più di 1.100, tra i quali alcune centinaia di disoccupati e di pensionati). Il turismo stagionale non risolve del tutto i problemi di questa piccola comunità che vede ancora ridursi la sua forza lavorativa per l'emigrazione dei giovani nel resto d’Italia o all'estero.
Un secolo fa i Buggerrai subivano lo sfruttamento padronale e classista. Oggi, nonostante il turismo ne abbia in parte cambiato il volto, il paese subisce la crisi economica e la conseguente disoccupazione.
Dopo la decadenza del latino come veicolo di comunicazione universale per l’Europa nascono, come è ben noto, le undici lingue neolatine o romanze e, per la loro origine e diffusione tra il popolo più che tra i dotti, “volgari”: l’italiano, il francese, lo spagnolo castigliano, il catalano … C’é stato un momento in cui a dominare è stato, sorprendentemente, il provenzale oggi quasi dimenticato, adoperato sì nel Sud della Francia come fa capire il nome, ma diffuso tra le persone colte delle aree confinanti (Italia e Francia del Nord e non solo) a prova della superiorità di una cultura decisamente più raffinata e matura, che ha posto le fondamenta dell’”architettura” romanica.
Le opere poetiche in provenzale, scritte tra il 1100 e il 1200 da autori di lingua madre, o da veneti, toscani, liguri, francesi potevano essere, come nella storia mondiale della poesia, liriche d’amore, inni alla bellezza femminile o alla natura, compianti di defunti, ma, in quel genere che fu chiamato “sirventese”, a intendere che quelle opere venivano commissionate, esse divenivano dei veri e propri capitoletti di cronaca del tempo, quando ancora non esistevano quotidiani, rotocalchi o, meno che mai, i mezzi di comunicazione di massa degli ultimi due secoli della nostra epoca.
Vi si leggono lodi al proprio signore, si rievocano imprese compiute, anche per rivendicare meriti presso il potente del momento, si espongono giudizi personali e politici, e consigli di condotta in situazioni di tensione internazionale.
Tra le innumerevoli produzioni di questa categoria, almeno una decina ci riporta notizie sulla storia della Sardegna giudicale, che in quella fascia di decenni vedeva la presenza di personaggi provenienti dal mondo “continentale” ai vertici dello stato, ma anche all’apice della loro fama.
Nino Visconti, ultimo Giudice di Gallura, fu, si sa, ricordato da Dante nel Purgatorio, dove l’Autore lo aveva collocato in quanto non proprio perfetto nella sua azione di governo; e Guglielmo Marchese di Massa e Giudice di Cagliari si rese famoso, da un lato, per la determinazione e l’acume politico con cui portò il suo stato a insuperata potenza, dall’altro, per l’aggressività e la crudeltà: attaccò, in anni diversi, tutti e tre gli altri Giudicati, e fu lui che, invaso il Logudoro ed espugnato il Castello del Goceano a Burgos, violentò Prunisinda, la moglie del Giudice Costantino II. In queste imprese, si appoggiò, a seconda delle convenienze, a Pisa o a Genova, all’epoca della sua sovranità (1190-1214) invece, costantemente e ferocemente nemiche.
La poesia che riporta a noi il “Juge de Galur”, cioè Nino Visconti Giudice di Gallura, è, più esattamente una “cobla”, un componimento in due parti firmato da un giullare anonimo: ricordiamo che anche i giullari, come i trovatori, sono tipici rappresentanti della cultura provenzale. Questo autore elogia nella prima parte il “Juge” destinatario per la sua generosità e altre doti meritevoli, ma nella seconda lo rimprovera blandamente di non aver più trattato con benevolenza il suo giullare, che in coscienza sa di non avergli fatto alcun torto. Insomma, una richiesta di “riassunzione al lavoro”. È sorprendente che in quelle corti giudicali, che ci immagineremmo povere e spartane, vi fossero presenze analoghe a quelle delle ben più famose, per sfarzo e vita culturale, corti dei Signori italiani, francesi o dei Conti di Savoia…
Hanno invece una firma ben nota i tre sirventesi dove si parla del Giudice Guglielmo: Peire de la Caravana, Peire Vidal ed Elia Cairel. I primi due ne cantano le lodi, il terzo, come vedremo subito, è di avviso contrario.
Nel momento in cui l’imperatore tedesco Arrigo VI, figlio di Federico Barbarossa, calava in Italia per ripetere i tentativi di affermazione di potere del padre su un Italia divisa in mille staterelli, Peire de la Caravana esortava gli italiani, da lui chiamati “Lombart”, a tener duro di fronte a questa invasione tedesca e, tra i “Lombardi” cui si rivolge, troviamo bolognesi, Veronesi, Milanesi naturalmente, ma dice anche:
Deus sal en Sardegna
Mon Malgrat-de-totz
«Dio salvi in Sardegna un certo Signor “Malgrado Tutti”» che nobilmente vive, valoroso e generoso più di ogni altro Cristiano … Fu Enrico Besta, all’inizio del XX secolo, a capire che questo soprannome, che ha un sapore di ferrea volontà e decisione, non poteva che riferirsi al Giudice cagliaritano: le calate di Arrigo VI avvennero nel 1191, nel 1194 e nel 1196, e Guglielmo aderì alla Lega antimperiale nel 1195, anche perché l’imperatore lo aveva espropriato del feudo di Massa, assegnandolo a un suo fedele.
Peire Vidal, nativo di Tolosa, ma girovago tra Provenza, Italia e Terrasanta, si spinge sino a dichiarare che manderà personalmente a Guglielmo, da lui chiamato il “pro Marques de Sardenha” «prode Marchese di Sardegna, che vive con gioia e con senno regna»: questi, racconta Vidal, è al momento dalle parti di Mongibello, quindi in Sicilia, e siamo dopo il 19 dicembre 1205, quando Siracusa, strappata ai genovesi dai pisani nel 1204, è, con un energico contrattacco, riconquistata dai liguri e dai loro alleati: evidentemente anche il Giudice di Cagliari, qui definito potente, ospitale e dal «gioioso tenor di vita», diede il suo contributo, esponendosi di persona.
Elias Cairel, giunto cronologicamente poco dopo Vidal e la Caravana, inverte con alcune rime incalzanti le positive affermazioni di questi ultimi:
Lo Marques de Massa cassa
Bon pretz, on q’el lo consegua;
Et totz lo mons vuoill q’entenda
Que sa valors sembla febre.
«Il Marchese di Massa» scrive «getta via ogni suo buon pregio» e, quanto ai suoi atti di valore, sostiene, «voglio che tutto il mondo sappia» che sembrano piuttosto sintomi di febbre.
E ancora, in altre poesie si possono leggere celebrazioni dell’avvenenza di dame sarde sempre di epoca giudicale, tra cui Adelasia figlia dello stesso Guglielmo, e un tal “Bruna la gracida” (la graziosa) che, si dice esplicitamente, si presenta ad un immaginario concorso di bellezza provenendo da “Castel”: Castel di Castro, Cagliari.
BIBLIOGRAFIA
Poesie provenzali storiche relative all’Italia, nella collana Fonti per la storia d’Italia, Istituto storico per il Medio Evo, a cura di V. De Bartolomeis, 2 volumi, Roma, Tipografia del Senato, 1931
Enrico BESTA, La Sardegna medioevale, Palermo 1908-1909, ristampa anastatica della Forni, Bologna, 1966 e anni successivi.
Il 10 luglio scorso è stata inaugurata a Cagliari, presso il Lazzaretto di Sant’Elia, la mostra “Vele, Tonni e Scimitarre” che prende spunto da alcuni, in realtà pochissimi, riferimenti alla Sardegna presenti nelle opere di Emilio Salgari, molto più noto e letto nei suoi cicli di romanzi “malesi”, “africani”, “western” e così via, o ambientati in un’Australia ancora nell’infanzia della sua storia, o infine fantascientifici.
Essenzialmente, gli scritti salgariani dove terre e figli della Sardegna hanno parte da protagonisti sono due: il romanzo “Le Pantere di Algeri”, e un opuscolo divenuto introvabile anche in antiquariato librario, “La pesca dei tonni”.
Il primo è ambientato tra Cagliari, Sant’Antioco, San Pietro e, naturalmente, l’Algeria. L’eroina principale è una giovane nobildonna che viene rapita dai corsari nordafricani dal suo (inesistente nella realtà) castello di Santafiora, e che il devoto fidanzato, il Barone di Sant’Elmo, un Cavaliere di Malta, riesce a liberare dopo una serie di animate peripezie.
Il secondo si potrebbe definire un “documentario cartaceo”, perché, basandosi su studi enciclopedici e su impressioni e su “sentito dire”, il bravo compositore di romanzi avventurosi (che mai viaggiò fuori dell’Italia settentrionale) descrive una tonnara che egli ambienta non, come avrebbe potuto, a Carloforte, ma, sembrerebbe, tra Bosa e Alghero, aggiungendo pennellate sui pescatori sardi alti, larghi di spalle, muscolosissimi, bruni come Africani…
Il percorso della mostra, che inizia con una porta d’ingresso costituita da una tenda che riproduce la copertina a colori di quest’ultimo scritto, si avvia proprio sulle tonnare: vi si può vedere una carrellata di fotografie dell’ultima mattanza carlofortina, scattate da Giovanni Manca, e anche un filmato degli anni ’60 sullo stesso argomento.
Nell’avventura tra “vele e scimitarre” si entra invece nella sala successiva: qui, dipinti di battaglie navali tra Cristiani e Barbareschi, modellini di navi, ritratti di famosi Cavalieri di Malta della stessa epoca dell’immaginario fidanzato della Contessina di Santafiora (prima metà del ‘600, dice la trama de “Le Pantere”) e armi bianche e da sparo, rigorosamente a pietra focaia. Appena più in fondo, si sentono da dietro una tenda grida, spari, tintinnii di metallo: una saletta cinematografica arredata con comodi sedili “orientali” cubici ben imbottiti dove si possono vedere spezzoni di film di pirati degli anni ’40 e ‘ 50 e stralci dai vari “Sandokan” televisivi.
Il piano di sopra offre ancora sorprese: uno schermo interattivo su cui si possono “sfogliare” le pagine di una versione a fumetti de “Le Pantere di Algeri” del lontano 1955, gioielli nordafricani, cartine della Sardegna dei secoli passati, e suggestivi dipinti con scene di vita maghrebina di Donatella Ribezzo.
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