Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Salvatore Satta nacque a Nuoro nell’estate del 1902. Ultimo figlio del Notaio Salvatore Satta e di Valentina Galfré, frequentò il liceo “Asproni” di Nuoro e conseguì la licenza liceale presso il famoso Istituto “Azuni” di Sassari. Frequentò la Facoltà di Giurisprudenza in diverse città italiane per poi laurearsi presso quella di Sassari.
Tra il 1928 e il 1930, giovanissimo, scrisse il suo primo romanzo “La veranda”, ambientato in un sanatorio dell’Italia settentrionale in cui il Satta si trovava ricoverato. L’atmosfera, già cupa di per sé, come può ben immaginarsi, è resa ancora più cupa e triste dal lento e monotono trascorrere dei giorni caratterizzati da un senso di abbandono e dall’alternarsi nello stato d’animo dei ricoverati, dallo spettro della fine incombente e dalla speranza indefinita e vaga di guarigione. Il manoscritto, ritrovato dopo la sua morte, fu ripubblicato nel 1979 dopo il successo de “Il giorno del giudizio”. Il Satta partecipò nel 1928 al Premio Viareggio presentando appunto “La veranda”. Mario Moretti, uno dei giurati, ne fu subito entusiasta, paragonandolo alla Montagna incantata di Thomas Man. Ma la giuria lo ritenne, dato l’argomento, improponibile per il pubblico italiano, in un’epoca in cui la malattia era vissuta quasi come un disvalore.
Deluso, decise di dedicare le sue energie allo studio del diritto, diventando ben presto docente universitario e giurista di fama europea nel campo del Diritto processuale civile. Insegnò presso le università di Padova, Genova, Trieste e, principalmente, Roma. Pubblicò numerosi lavori di carattere giuridico di respiro europeo che gli conferirono ampia notorietà nel settore. Tra il 1944 e il 1945 scrisse il “De Profundis”, delle riflessioni amare sulla fine del fascismo e sugli orrori della guerra.
Nel 1970 iniziò la stesura de “Il giorno del giudizio”, che terminò nel 1974, a un anno dalla morte avvenuta il 19 aprile del 1975. Il romanzo fu pubblicato postumo nel 1977 dalla Casa editrice Cedam, specializzata in testi giuridici. Ma il successo dell’opera arrivò con la successiva pubblicazione, avvenuta nel 1979 con l’Adelphi. Si rivelò uno scrittore di grandissimo talento, divenendo ben presto un caso letterario senza precedenti, tradotto in ben 17 lingue, e può essere considerato tra gli scrittori più significativi del Novecento. “Il giorno del giudizio” narra la storia di una famiglia; la sua famiglia, vissuta a Nuoro tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale. Il romanzo, caratterizzato dalle atmosfere cupe e tenebrose tipiche dell’autore, induce il lettore alla riflessione sul senso dell’esistenza e sull’ineluttabilità della vita, attraverso lo sfilare di personaggi con i loro vizi e le loro virtù, offrendo un vivido affresco della Nuoro dell’epoca. Riflette, inoltre, tramite i suoi personaggi, il conservatorismo dell’autore, angosciato dal dilagare delle manifestazioni operaie e studentesche scaturite nei primi anni Settanta e dalle conquiste sociali ad esse connesse quali, in primis, il divorzio, la scuola di massa e le innovazioni normative in ambito lavoro. Non mancarono i malumori dei nuoresi che si sentirono rappresentati nelle pagine del romanzo e le critiche di chi riteneva riduttivo focalizzare le vicende narrate quasi esclusivamente sulla borghesia e non l’insieme della società.
Bibliografia ragionata
Salvatore Satta, De Profundis, Padova, Cedam,1948
Salvatore Satta, De Profundis, Milano, Adelphi, 1980
Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, Padova, Cedam, 1977
Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, Milano, Adelphi 1979
Salvatore Satta, La Veranda, Milano, Adelphi, 1981
Salvatore Satta, Il mistero del processo, Milano, Adelphi, 1994
Vanna Gazzola Stacchini, Come in un giudizio, vita di Salvatore Satta, Roma, Donzelli, 2002
Salvatore Satta, la Veranda, Nuoro, Illisso, 2002
Salvatore Satta, De Profundis, Nuoro, Illisso, 2003
Salvatore satta, Il giorno del giudizio, Nuoro, Il Maestrale, 2006
S’Acabadora. È ora di finirla? di Toni Soggiu, (postfazione di Antoni Arca, Condaghes, Cagliari, 2010, pp. 105, Collana “Contos e Amentos”), fin dalla sua uscita non ha mancato di suscitare molte polemiche, sulla scia del romanzo di Michela Murgia, dal titolo omonimo, ma stavolta con due c e senza l’articolo, vincitrice un po’ a sorpresa, del premio Campiello 2010, edito da Einaudi nel 2009 per la collana “Supercoralli” ma soprattutto per il lavoro di Dolores Turchi, dal titolo: Ho visto agire s’accabadora, la prima testimonianza oculare di una persona vivente sull’operato de s’accabadora, Iris, Oliena, 2008.
Il Soggiu confuta punto per punto tutta una serie di credenze e luoghi comuni e, tra le righe, chi in buona fede o cavalcando la leggenda vuol dimostrare che questa, diciamo così, particolare figura professionale fosse realmente esistita. Il termine, di derivazione catalana, sarebbe stato introdotto nel tardo Medioevo e quindi già in contraddizione con chi fa risalire tale macabro “rituale” alla notte dei tempi.
Secondo l’autore, la leggenda de s’acabadora si radicò nell’immaginario collettivo probabilmente per effetto di alcuni romanzi pubblicati nell’Ottocento da Carlo Varese, addirittura alcuni tradotti in inglese e pubblicati a Londra, dai viaggiatori inglesi in Sardegna, nonché da alcune “forzature ideologiche” di Joyce Lussu e Francesco Masala.
Ma le tante obiezioni dell’autore quelle più forti e convincenti, sicuramente, riguardano l’assenza totale di cronache o documenti dell’epoca che trattino di denunce, liti, processi, relativi a eredità contese tra i parenti del defunto.
Il Soggiu insinua anche una latente visione lombrosiana del fenomeno da parte di chi avrebbe interesse a criminalizzare un intero popolo in un’ottica di stampo colonialista.
Personalmente ritengo che i Sardi, per tradizione, abbiano sempre avuto nei confronti degli anziani un rispetto e una considerazione per la loro saggezza ed esperienza. Mi chiedo anche: se si trattava di una sorta di eutanasia perché praticarla solo nei confronti degli anziani e non a tutti coloro che si trovavano in condizioni di salute irreversibili? Ma chi poi può fare tale valutazione? Diciamo che l’eutanasia e l’infanticidio, altro argomento correlato e trattato nella pubblicazione, sono stati praticati, nel bene e nel male, da tutti i popoli indistintamente e non in maniera quasi sistematica e tribale come si vorrebbe far credere.
In conclusione, l’autore sostiene che s’acabadora non sarebbe altro che la Madonna richiamata nelle preghiera dell’Ave Maria, la fine della vita, s’acabu de s’ora in lingua sarda. “Sa femmina accabadora”, la donna chiamata per predisporre le fasi antecedenti la sepoltura.
La postfazione di Antoni Arca, perfettamente in linea con l’analisi dell’autore, risulta anch’essa rigorosa e allo stesso tempo, a tratti ironica, talvolta quasi esilarante contribuendo a renderne piacevole la lettura.
Il suo libro “Sante & Sciamane” racconta le “cose di donne”, le esperienze più intense dell’universo femminile, come la maternità. Ha tratto ispirazione più dallo studio e dall’osservazione o dalla sua esperienza personale?
Nonostante dall’età di vent’anni io abbia sempre lavorato nel campo artistico, sono una donna che ha vissuto la maternità e la cura della casa e della famiglia come attività principale della propria esistenza, proprio come accade a moltissime altre donne. La differenza sta nel fatto che ho sempre una visione artistica della realtà e in tutto ciò che faccio e che vedo fare dagli altri, osservo e analizzo le analogie e le differenze per trarre un insegnamento che possa essere utile a me stessa ma possa anche essere comunicato in forma artistica e sia dunque utile anche agli altri.
Secondo Lei esiste davvero il sentimento della “sorellanza” fra donne o è vero piuttosto che la competizione è sempre spietata, in ogni ambito della vita, più che fra gli uomini?
Si può parlare piuttosto di solidarietà tra donne finalizzata al miglior rendimento del servizio che la donna un tempo rendeva alla società: l’iniziazione ai misteri della riproduzione, il parto, la cura dei bambini; oggi questo manca per via dei mutamenti sociali. Essendo oggi diventata la donna un soggetto sociale, e non un oggetto, come individuo la donna sta scoprendo la sorellanza così come gli uomini scoprono la fraternità; ma questi sono valori che dobbiamo ancora conquistare. Fino a che l’obiettivo dell’individuo sarà il potere, esisterà la competitività. Comunque questa è sempre stata notoriamente maggiore tra le donne, forse perché gli uomini sulla piazza sono sempre stati numericamente inferiori alle donne.
La donna “moderna” ha perso un po’ di quella magia “ancestrale” che le derivava dalla sua unicità rispetto al maschio, che anche per questo la rispettava? La parità dei sessi, insomma, secondo lei ha nuociuto in qualche modo al mistero femminile?
I misteri sono scomparsi tutti. Apparentemente. C’è stato un appiattimento dato dall’illusione che la scienza ci possa spiegare tutto. Infatti è così, solo che bisogna intendersi su ciò che è veramente scientifico. Spesso per pensiero scientifico si intende pensiero materialistico che non è certo l’unico metodo di indagine possibile. Ci sono donne che ancora mantengono un contatto con lo spirito del mondo e della natura, che usano quella particolare sensibilità dell’essere femminile derivata dalla familiarità con la generazione della vita. Se vogliamo chiamiamola magia io parlerei piuttosto dello sviluppo particolare dei sensi e della percezione in genere. Io direi che ieri la donna veniva rispettata a patto che stesse al posto suo. Oggi è temuta perché invade gli spazi tradizionalmente ritenuti maschili; il problema rimane: qual è il posto della donna, e quale quello dell’uomo?
Cosa c’è di uguale e cosa di diverso fra le donne di venti anni fa e quelle di oggi? Sono ancora quelle donne che affascinavano D.H. Lawrence, “con la schiena dritta e i pugni duri”?
Certamente in Sardegna è così. Noi sarde siamo orgogliose, a volte troppo…
Quali sono i suoi progetti in corso e quelli futuri?
Continuare ad occuparmi della differenza di genere, adesso sono alle prese con il progetto Deinas (oracoli) insieme a Rita Atzeri del Crogiuolo. Stiamo divulgando nelle scuole in questi giorni, i risultati di una ricerca etnografica realizzata sul campo da Marco Lutzu e curata dalla società Sarditinera per la Provincia del Medio Campidano. Questo progetto intende avvicinare i ragazzi alla conoscenza della poesia estemporanea in lingua sarda e prevede da parte mia(insieme a Simon Balestrazzi) anche la realizzazione di un disco con la riproposta di alcuni brani musicali in una rielaborazione personale.
Che messaggio vorrebbe fosse colto dai lettori del suo libro?
Vorrei che si considerasse il passato con obiettività recuperando ciò che ancora ci può essere utile, e in particolare che le donne ragionassero sulla differenza di genere accettando la loro specificità. Auspico che la donna coltivi la sua sensibilità particolare in senso sociale per continuare ad essere in modo attuale un esempio nella cura del mondo.
Tornare a vivere e lavorare in Sardegna, studiarne le tradizioni, sperimentarne le possibilità espressive: tutto questo ha influito positivamente sulla sua creatività? E quali differenze ha trovato rispetto alle esperienze fatte “al di là” del mare?
Tornare qui è stata una tappa obbligata del mio personale percorso di crescita. Lo studio delle tradizioni mi permette di prefigurare nuove prospettive per il futuro della Sardegna e non solo. Mi ha dato un grande impulso creativo anche se non sempre quello che cucino trova appetiti adeguati. Forse al di là del mare c’è più appetito e maggiore spregiudicatezza. In Sardegna gli schieramenti di potere sono molto netti, ed io per scelta sono fuori da questi schieramenti.
Perché ha parlato solo delle donne sarde? Cosa le differenzia dalle altre che ha conosciuto?
Le donne sarde sono speciali perché la nostra società in genere che è molto conservativa, ci mostra sopravvivenze di comportamenti e di valori che altrove vanno scomparendo rapidamente. Per esempio l’attaccamento alla terra e l’interesse per la ritualità.
Da cosa nasce l'idea del romanzo “Vita e morta di Ludovico Lauter”?
Ho trascorso un anno intero a Cala Liberotto. Lavoravo a Nuoro e viaggiavo in macchina ogni giorno. Avevo molto spazio, e la libertà di pensare. Mi è venuta in mente questa storia in modo molto naturale ed è stato molto bello scriverla. Desideravo provare a ricreare un intero mondo, con molti personaggi, intrecci complessi, emozioni, dolore, odio, amore, pietà. Volevo lasciare completo e libero sfogo alla fantasia. L’occasione non poteva essere sprecata.
Quali sono gli autori che l'hanno maggiormente influenzata?
Senza dubbio Elsa Morante e Thomas Mann sono le presenze più esplicite di questo libro, sono quasi dei fantasmi che inseguo e coi quali provo a giocare. Credo sia molto importante avere modelli alti, aspirare a grandi cose, altrimenti si rischia di accontentarsi di piccoli fallimenti. La letteratura comporta un certo fattore di rischio. Bisogna mettere in gioco grandi cose. Oltre a questi due magnifici scrittori ho una venerazione per “Il giorno del Giudizio” di Salvatore Satta, per me uno tra i libri più belli che siano mai stati scritti. E poi George Orwell, Joyce Carol Oates, Coetzee, Natalia Ginzburg, Alberto Moravia, Kafka, Soldati, Annamaria Ortese. Non c’è un filo logico, solo un grande amore per la lettura. L’anarchia nei gusti letterari è una grande risorsa. Alcuni scrittori diventano un modello che si cerca di imitare, altri restano una controparte irraggiungibile.
Cosa rappresenta per lei la figura di Ludovico Lauter?
Il mostro dell’ambizione, il narcisismo che chiude gli occhi al mondo. Ma anche il mostro che bisogna evocare ( e poi sopprimere) per poter creare un romanzo ambizioso. Vita e morte: vita della letteratura, morte del narcisismo. Bisogna creare un Ludovico Lauter, lasciarsi trasportare da lui, ma poi saperlo uccidere prima che ci rovini.
Come si pone invece verso la più controversa figura femminile del romanzo, Giulia, madre di Lauter? Giulia è una donna che ama l’arte per l’arte, senza secondi fini. Tuttavia è lei la prima colpevole del narcisismo del figlio. È la persona che lo ha rinchiuso nel suo piccolo mondo, un mondo nel quale contava solamente il loro immaginario. Lei è, per molti aspetti, una specie di selvaggia, fragile, tenera, ma anche Giulia è egoista, come il figlio. Anzi è il modello, la fonte dell’egoismo del figlio.
Che significato ha, per lei, la scrittura?
È innanzitutto un piacere enorme, la possibilità di migliorare la propria vita, acuire la propria sensibilità. Fare, sognare e pensare cose che normalmente non potremmo raggiungere. Per questo a me piace la letteratura un po’ sopra le righe, quella che ti fa vedere le cose dall’alto, o dal basso, ma mai al livello esatto della realtà. È strano, ma è proprio uscendo dalla realtà che la letteratura permette di innalzare il livello di comprensione della vita. La letteratura è per me, innanzitutto, amore per la vita, voglia di vivere.
Ha in progetto nuovi lavori?
Ormai ci avviciniamo all’uscita del secondo romanzo. È passato quasi un anno da Ludovico Lauter. Il secondo libro sarà ancora pubblicato dal Maestrale e sarà molto diverso dal primo. Entro il 2008 poi Gallimard pubblicherà in Francia “Vita e morte di Ludovico Lauter”.
Sa faina literària de Francu Pilloni est beni matuca cun d-una bella pariga de lìburus in sardu e in italianu puru. In cust’òpera noa paricis stòrias currint in su contai de su lìburu po nci torrai, che arrius a mari, totus a su contu de Arega Pon Pon, sa protagonista. Su contu nci ferit fintzas a Amèrica, de susu e de giossu, ndi tòrrat a Casteddu e nci imbatit a una bidda cali si siat a giru de su Monti Arci. E si est giustu e bellu chi is contus in sardu no fueddint sceti de cosa sarda, s’est pràxiu meda chi in custu traballu Casteddu puru nc’apat tentu parti. Contus casteddajus gei nci nd’at ma sa ‘Tzitari’ iat a podi tenni una parti prus manna puru in sa literadura sarda e at fatu beni Pilloni a ddi torrai su logu chi ddi spètat. Seus tra Casteddu de Susu e sa Marina, aundi is poetas si funt chescendi ghetendinci a terra billeteddus cun fueddus scarèscius chi cròsant apari, e a Plàcidu, s’atori printzipali, ddi incapìtat de atobiai a una stràngia chi nci ddu pòrtat a unu logu mai biu e mai connotu. In su interis Arega Pon Pon, piciochedda disdiciada allomingiada Pon Pon po dda stroci, s’agàtat a sola a s’acabu de su mundu, chi est spaciau cumenti no s’emus a abetai mai. Su contu inghìtzat de un’acuntèssiu malu, de una violèntzia e de una morti ma cumenti acostùmat a acadessi, de sa morti etotu ndi tòrrat a nasci sa vida e a Arega mancai malassortada, ddi tòcat a ndi torrai a pesai totu s’umanidadi, finas gràtzias a unu gioghitu nou chi at abritiau impari cun su fillu. Sa famìllia s’amànniat, issa cun Gianu, su fillu, sighint a fai atrus fillus e is fillus aici etotu, una tzivilidadi noa si ndi tòrrat a strantaxai a bellu a bellu, torrendi a imparai totu su chi serbit po si campai. Aici sa vida tòrrat a nasci, òminis e fèminas ndi tòrrant a preni su mundu e Arega Pon Pon benit a essi s’ajaja manna de su mundu nou. Pilloni est unu scridori capassu, chi scit contai e tenit cosa de nai, duas calidadis chi iant a depi caminai sèmpiri paris po fai literadura bona. Sa prosa est sciuta, praxili e fintzas spassiosa candu ddi dexit. Sa lìngua est unu campidanesu literàriu chi s’autori connoscit beni e fatu fatu oberit a is fueddus e a su spìritu de su sardu marmiddesu, colorendiddu de coloris suus particularis chi dd’arrìcant e si ddu faint parri ancora prus biatzu. Cosa chi si praxit meda, chi in d-una standardizatzioni literària ddui siat ancora su logu po is scioberus personalis, po sighiri a amanniai una literadura chi oindi’ no si parit prus aici pitica.
1.0. Pensende a su chi apo a iscrier no isco si fagher autocrìtica o una dinùntzia. Pro s’autocrìtica, prus chi su chi apo iscritu e nadu, mi tirat su tonu chi apo impreadu: «un’òpera est bona cando est arte, e custu non b’intrat cun sa gramàtiga de sas limbas»! Pro sa dinùntzia, mi tirat su chi mi ant fatu creer: «su romanzu in sardu est una raridade; tando, mèngius de ocupare•si de sos sardos chi iscrient bonos romanzos, mancari in italianu»!
1.1. Est beru, un’òpera est bona cando est arte e non b’intrat cun sas limbas, ma finas sas òperas artesanas balet sa pena de las istudiare, ca b’intrat meda cun s’estètica; e sa limba, cun o sena gramàtiga, in literadura b’intrat semper: cando parfat chi non bi siat, est ca sa limba de cudd’autore fiat gai arta e profunda dae resurtare imbisìbile, a sicomente s’ossìgenu. Imbisìbile, sena sabore, però netzessària. In àteras òperas, imbetze, sa limba si bidet, est gai presente dae esser issa parte manna de s’òpera: e tando sa limba resurtat che abba: mare de beranu, mare de ierru, mare de note, pruja, abba de flùmene, abba de nie. B’at òperas in ue sa limba est gai presente dae resurtare sa parte prus manna, e duncas prus bella, o prus dèbile, che abba de ludu. Duncas, custa est s’autocrìtica: no aia cumpresu chi sa limba sarda est galu orale e totu sas òperas iscritas in sardu ant a pretzisare sa limba (autodidata) de sos autores issoro. Est male, custa cosa? Est male chi sos narradores e sos poetas sardos, cando si ponent a iscrier lu fatant dae autodidatas, dae iscritores sena mudellos teòricos fortes, sena gramàtigas e sena ditzionàrios atzetados e cumpartidos dae sa generalidade de sos sardos? Sisse. Est unu dolu mannu, ma sos iscritore non d’ant curpa peruna. Su neghe est de sa pulìtica italianista, da sa farta de una pulìtica limbistiga sana, est a narrer de unu bilinguìsmu modernu, in ue chie cheret istudiat s’italianu, chie non cheret istudiat su sardu e su bilinguìsmu perfetu est cosa de chie li sirvet pro traballiare o ca li piaghet.
1.1.1. Acabu de s’autocrìtica: un’òpera iscrita in sardu l’apo a lègere cunsiderende prima su nivellu de sardu impreadu, e a pustis solu sa calidade artìstica, ca antis bisòngia de educare su sentidu estèticu. Sa cale cosa non gheret narrer chi si unu libru est feu, iscritu in sardu si faghet bellu. Prus a prestu chi unu libru feu, iscritu in unu bellu sardu, potat tener carchi pàgina de antologia, de cuddas ùtiles pro imparare a iscrier bene. E custu, in dies de oe, no est paga cosa.
1.2. Passende a sa denùntzia, est ora de l’acabare de amisturare sa polìtica istatale cun sa polìtica culturale, s’istrutzione iscolàstica cun s’istòria de Sardigna, su bene pro su mercadu editoriale cun su bene pro su pòbulu de sa natzione sarda. Chi sa Sardigna siat una regione de s’istadu italianu est unu fatu, chi s’iscola de sos minores nostros siat totu italiana, un’àteru ancora, chi meda sardos si pensent che italianos antis che sardos est beru, a sicomente b’at sardos chie si abirgonzant d’esser sardos. Ma custu est su sentidu de sa modernidade, non su sentidu de sa Sardigna. Est normale chi chie cumandat pedat e chie est teracu ponzat s’àinu in ue cheret su mere. Su chi no est normale, su chi no est pretzisu, est de si sentire che teracos e de lo atzetare cuntentos. Ite gheret narrer chi un’iscritore chie pùbricat in Torino cun Einaudi iscriende in italianu est un’iscritore sardu: 1. ca est nàschidu in Sardigna? 2. ca b’at postu un’ambientatzione sarda? E tando? Fradile meu est nàschidu in Londra ma no est ingresu e sa limba de Shakespeare mancu l’ischit faeddare. E deo apo ambientadu unu contu in sa luna e, finas si so lunàticu, non seo unu selenita. O fortzis est prus sardu s’iscritore chie, iscriende in italianu, pùbricat cun un’editore isolanu? Non brullamos. Custas sunt etichetas de moda oe, in tempus de globalizatzione ètnica, in ue si non ses ètnicu ses un pòeru imbisìbile. Tando, chie girat su mundu, mancari dae domu sua clichende in internet, lu connoschet bene custu fenòmenu globale in ue sos pòeros de sa terra esistint a partire de s’identidade locale; su rumenu, su senegalese, su pakistanu e finas su sardu, un’apena prus a subra de su “terùn”, chi fiat troppu genèricu. Cuddos sunt sos etnicamente perillosos, ca sunt o fiant extracomunitàrios, nois, finas si semus prus pagu esòticos che issos, damus s’avantàgiu de non poner perillu sotziale perunu, ca si nono sos amigos de Berlusconi e de Briatore non bi benint prus in s’istiu.
1.2.1. Acabu de sa dinùntzia. Chie si giustificat nende chi iscriet in italianu e non in sardu ca gheret «faeddare a su mundu», istat faulende, ca si su contu est de incuntrare su nùmeru màssimu de letores, tando at a iscrier in Giaponesu, ca sunt sos chie de prus legent in su mundu, opuru in ingresu, ma solu pubrichende cun un’editore mannu, ca sos minores tenenent distributzione locale ebbia. Dae ùrtimu, in ispagnolu, ma pubrichende in Barztellona pro una multinatzionale chi distribuat in Ispagna e in Amèrica umpare. Un’editore italianu normale, de prima imprenta non tirat prus de milli millichimbenghentu còpias, pretzisu pretzisu che unu bonu editore sardu chie ti publichet in limba sarda. Sos sardos chi iscrient in italianu est ca sunt intalianos, italianos ebbia. Si poi lis sutzedit chi nende•si iscritores sardos lis resurtat prus fàtzile otener crìticas e recentziones, custu non b’intrat cun sa sardidade, ma cun s’indùstria culturale. Giustificare•si nende chi emmo, s’òpera già si l’aiant pensada in sardu, ma no ischende in cale sardu la “normalizzare” si sunt passados a s’italianu, est un (in)boluntàriu atu de sutamissione a su mere italianu; ca si sa giustificazione fiat giusta, sa limba in sa cale passare sa pubricatzione de su contu, fiat s’ingresu, o s’ispannolu, o su frantzesu, limbas de comunicazione internatzionale manna.
1.2.1.1. Pro l’acabare de su totu cun sa fàula de sa literadura sarda iscrita in italianu, namus su chi s’imparat sa prima die de lezione de literadura arrividos in prima mèdia: onzi literadura est ligada a sa limba sua; cando una literadura natzionale si manifestat in una limba de un’àtera nazione, si nd’at a cunsiderare s’istòria; pro nàrrer, sa literadura de Argentina est in limba ispannola, ma non est literadura de Ispagna, est argentina ebbia. Tando, sa literadura sarda est sa chi est iscrita in sardu e in sas àteras limbas de Sardigna non de un’istadu. Sa literadura fata in limba italiana, mai s’est fata pro sa natzione sarda ma sempre pro sa natzione italiana, tando no est literadura sarda, ma literadura italiana iscrita dae sardos. E finas su chi sos aligaresos amus iscritu pensende a su pùbricu catelanu, no at a esser cunsiderada literadura sarda. Finas sì, puliticamente, at a esser de importu mannu de cunsiderare aligaresos, tabarkinos e gadduresos, sardos de dòpia etnia: sardu-catelanu, sardu-lìgure, sardu-corsicanu.
2. 0. Poi de sas (auto)crìticas ant a bener sas prupostas e bi nd’ant meda, tocat de las definire e de las cumpartire. Cumintzende dae sa limba de sos sardos finas a cunsiderare su cànone literàriu sardu. E sunt temas importantes, pro onniunu bi gheret unu libru etotu. Inoghe nde podimus sinnare nessi su tìtulu.
2.1. Sa limba de sos sardos est una limba chi s’est sarvada in sos sèculus gràtzias a sa fortza de s’oralidade sua. Che limba de iscritura su sardu tenet pagos annos de bida. Sos condagahes sunt “registratziones” de faeddos, sos poemas de su chimbe e seteghentu sunt notas pro una letura a boghe prena, o dae s’altare o dae su palcu de sos cantadores. Sas meda òperas de s’otighentu sunt “registratziones” poèticas de su chi si cantaiat e contaiat. Totu òperas chi si sunt torradas libros de autores in su noeghentu solu, cando nois puru amus chèrfidu tener sos “clàssicos nostros”. In cuddu sutasistema literàriu, fatu de mèmorias cuidadas pro su tempus benidore, e non de iscrituras pro sos letores cuntemporànios, s’idea de tener una “koiné”, a su mancu ortogràfica, resurtaiat una cuntraditzione, ca sos curadores e sos chircadores fiant interessados a totu sos aspetos secundàrios de sa literatura orale nostra: non s’arte e sa poètica, ma s’antropologia e sa tradizione. Tando, prus su faeddu fiat “diferentziante”, mèngius fiat pro su chircadore. Pro su letore su problema non bi fiat mai, ca umpare a sa boghe de su cantadore e/o contadore, semper bi fiat sa tradutzione. Nende•lu cun prus craresa, s’idea de una limba sarda, sa matessi pro totu sos sardos, est una idea noa, chi, puliticamente, non tenet prus de una barantina de annos e chi non est atzetada galu dae totu sos sardos, nemancu dae cuddos chi già la faeddant e la iscrient sena lu gherer. Iscurtare duos iscritores sardos chi brigant pro una “T” de prus o de mancu, o pro si si at o nono de indicare s’elisione cun s’apòstrofo est cosa de non lu creer. Sa limba chi si faeddat in carrela non est sa matessi limba chi si iscriet in su papiru, e brigare pro un’àtzentu curtzu o longu cando est ora de fagher Sardigna a totus umpare, est s’evidèntzia de un’istadu de autofolclorizatzione avantzadu: su chi est de importu est sa fonètica istudiada pro escludendum: custu puru est sardu, ma custu non est de bidda mia. Prus chi brigas literàrias, chi est su normale intre iscritores, parent peleas intre Pro-Loco: benide a sa fonètica mia chi est ùnica in su mundu. E custu, mancari annos de prèmios literàrios e de cungressos a pizu de sa limba l’apant acraradu chi sa fonètica est una cosa, sa limba iscrita est un’àtera e sa literadura un’àtera ancora.
2.2. Ma fortzis, sos iscritores sardos chi bi creent de a beru, si aiant de arrebellare a cuddos prèmios e a cuddos cungressos in ue si prèdicat s’immobilidade e bisu e pes abbaindant semper e solu a su tempus coladu. Comente insinnat Walter Benjamin, amus a abbaidare daesegus ma caminende a daeinanti. A la finire cun sos prèmios de poesia in ue si podet narrer poeta un’òmine chi in sa bida sua at iscritu una poesia sola; a l’acabare cun sos prèmios de narradiva de unu contu solu e possibilmente autobiogràficu. Sos prèmios ant a esser normales: pro una sìlloge, mìnimu 25 poesia peròmine; pro su romanzu, mìnimu 140 pàginas; pros su contu, mìnimu deghe contos peròmine; pro su teatru, mìnimu un’òpera chi representada duret un’ora; pro sos libros de literadura, in cale si siat barietade de sardu, ma regularmente pubricados e mai premiados antis. Sa prus parte de sos prèmios chi esistint como, ant de si torrare su chi realmente sunt: festas de sa poesia e de sa narradiva in limba sarda. Tando, cumbidamus una mesa doighina de autores chi sa giuria de su prèmiu cunsideret representativos e los fatimus lègere a boghe prena, e poi cumbidamus totus sos chi lu gherent fagher de nde pigare a palcu e de si proare sa valentia issoro, legende sena filtros pro su pùbricu presente. Chie est prus bonu, si est bonu, lu detzidet s’agradessimuntu de sa gente in “sala” chie lu prèmiat cun s’aplaudimentu Sos autores de a beru, non sos chi nos ant cherfidu contare sa bida issoro, ma sos chi ischint contare ca contare est s’arte e s’impreu issoro, ant a fagher s’isfortzu de si sustituire a sos crìticos e a sos istoriadores, ca s’analizu de sa literadura sarda est deficitàriu meda.
2.3. Ischimus meda cosas de sa poesia in sardu, ma sos autores connotos non sunt prus de una deghina. Pro lu esemprificare, non b’at istudios cumparativos intre sa forma de poetare de sos poeta de bidda e de tzitade, de sos de Campidanu e de sos de Logudoro, de sos chi ant fatu poesia in su sentidu prenu, e de sos chi ant utilzadu sa poesia non pro “poetare” ma pro “narrare” contos, fàulas e romanzos mantenende sas rimas. Non b’at istùdios chi analizent sas formas de contare orale sardu in sentidu literàriu. Totu su chi ischimus de contàscias, fàulas e paristòrias nos benit dae sos istùdios de glotologia, de antropologia, de folclore e etzetera. Ma est evidente chi una fàula narada oe dae mannai e chi resurtet sa matessi iscrita dae Ramon Llull in su sèculu trèighi, non si podet esser “sarvada” ca fiat su destinu sou, ma ca est intradada in sos repertòrios de sos mastros narradores de Sardigna. Tando, sas fàulas, in totu sas manifestatziones issoro, ant a esser cunsideradas che parte de sa literadura sarda e, parte manna meda in sa espressione orale sua. Una chirca chi non est istada fata in funztione literària ma che at produidu cantidade meda de libros de fàula pro pitzinnos casi semper in italianu. Làstima chi non semper cuddos libros siant bellos, e làstima chi semper sunt libros traizinos, ca sas fàulas sardas, comente sas fàulas de totu su mundu, non sunt pro pitzinnos; sas fàulas incadenadas solu sunt nàschidas pro a issos, comente cudda de Comare Pulighita.
2.4. B’at poi de analizare totu su “presente”: sos romanzos premiados in su Casteddu de sa Fae dae su 1982 a oe; sos romanzos premiados in su Deledda; sa cumparazione de sos narradores premiados pro unu contu a a sola, e sunt prus de 200, e sos poetas premiados in 50 annos, e sunt prus de 1000; b’at de istudiare s’òpera teatrale de una chentinaia de dramaturgos, casi semper connotos in sas biddas issoro ebbia, e sos romanzos e sos libros de contos de un’àtera chentinàia de iscritores ancora. B’at a fagher un’istùdiu mannu chi permitat de cumintzare a pensare a unu cànone, un’estètica, chi nos ponzat in sa normalidade de totu sas literaduras: unas lìnias interpretadivas de s’identidade (dae s’oralidade, a s’autodidatismu, a un’editoria normale), de sos clàssicos (dae s’edade de semper a oe, segundu poesia, narradiva e teatru) e de sos contemporànios (sena nde orvidare mancunu); totu legidu e interpretadu segundu sas lìnias de analizu de sa sardìstica, e non de s’italianìstica.
«Il passato è un inganno che ritorna, un tormento, un film che si ripete dentro la mia testa, sempre uguale, come una malattia insidiosa. Una malattia che mi vuota e mi stanca, e che mi ha guastato il cervello. Una malattia che mi ha portato qui, alla Casa Matta, così la chiamiamo noi». È così che ha inizio la narrazione di Oreste, l’io narrante di Vicolo Rosso, ultimo romanzo di Augusto Secchi edito da Condaghes. Lasciandosi cullare dal flusso dei propri ricordi, resi ancora più intensi da una malattia che «scolora le immagini più recenti e tinge di particolari un passato che credevo sepolto», Oreste rivive e condivide un passato storico e personale nostalgico, fatto di rimpianti e sogni svaniti di cui ormai rimane solo una bandiera e una porta murata in Vicolo Rosso, troppo “periferico” rispetto ai luoghi da cui giungevano decisioni e linee da seguire.
Le storie dei compagni Sergio e Stalin, del Profeta, pronipote di Michele Schirru, dell’insolito poeta Giambo e del giovane rivoluzionario Evelino creano un intreccio tra la storia e le loro singole esistenze che confluiranno in un comune declino cullato da ricordi fatti di nostalgia, amarezza e rimpianti per quell’occasione perduta che avrebbe potuto cambiare il corso della storia. A fare da sfondo ai percorsi dei singoli personaggi e a caratterizzarne gesti e umori, c’è Berlinguer in un indimenticabile comizio con gli Inti-illimani, il Gulag e un libro «aperto sull’ultima pagina, le ultime righe sottolineate con tratti forti di matita» lasciato su un tavolo del bar di Stalin, la svolta della Bolognina e la decisione di cambiare il nome al partito, il muro di Berlino e la sensazione di «essere incantati dal nostro stesso fallimento, dal fallimento dei nostri ideali, della nostra storia».
Con il suo romanzo Augusto Secchi dà vita a un flusso di ricordi che costituisce un percorso politico, storico ed emotivo da cui trapela la nostalgia di una coscienza politica che era anche passione e che oggi sembra essersi perduta. Ne è la prova il fatto che insieme ai sogni e agli ideali decadono anche i personaggi, non in grado, o meglio non desiderosi di appoggiare quella “svolta”. Tale flusso, a metà strada fra il monologo interiore e il dialogo con un interlocutore la cui presenza è avvertibile solo nelle parole di Sergio, trova espressione in un linguaggio volutamente lontano dallo standard. Vicolo Rosso cattura l’attenzione del lettore coinvolgendolo in un’atmosfera che lo porterà in un turbinio di riflessioni su declini e debolezze, amicizie, coerenza e messa in discussione della propria sfera privata per ideali politici. «Dove sono gli ideali e i sogni che mi facevano piangere quel giorno ascoltando gli Inti-Illimani e Sergio e Berlinguer abbracciati?». Forse è proprio questo che il lettore si chiederà posando il libro.
Definita dai suoi abitanti la “piccola Parigi”, probabilmente perché per diversi decenni una società francese ne gestiva la miniera o perché la sua bellezza non è inferiore a quella della capitale francese, Buggerru, pur essendo un paese di recente formazione, occupa un posto di notevole importanza nella storia italiana.
Tre statue di trachite rosa, distese a terra sulla grande aiuola della piazza, sono l'opera con la quale Pinuccio Sciola, in occasione dell'ottantesimo anniversario, ha voluto rappresentare il simbolo del tragico eccidio dei minatori che, nel 1904, pose Buggerru, a buon diritto, protagonista nella storia del movimento nazionale operaio.
Quel tragico evento di sangue, in cui persero la vita i minatori Felice Littera, Salvatore Montixi, Giovanni Pilloni (colpiti dalle pallottole dei militari) e Giustino Pittau che morì successivamente in ospedale (per complicazioni dovute alle ferite riportate), non ispirò solo la scultura ma anche la poesia e la pittura.
Significativo il passo «Sardegna! Dolce madre taciturna. Non mai sangue più puro e innocente di questo ti bruciò il core», tratto dall'ode “I morti di Buggerru” di Sebastiano Satta.
Ma altrettanto importanti sono le opere di Giovanni Canu e Giovanni Nonnis che dipinsero due oli ispirati al tragico epilogo dello sciopero del 1904. Romano Ruju, invece, volle rievocare i fatti di Buggerru con l'opera teatrale “Quel giorno a Buggerru”.
È evidente che gli idealisti, gli animi più puri, non restarono insensibili di fronte a quel sacrificio di vite umane per condizioni di lavoro più accettabili, in una già triste realtà fatta di pozzi e gallerie, di oppressioni morali e sfruttamento. Già agli inizi del Novecento i minatori erano organizzati sindacalmente e a Buggerru la direzione della Lega era stata affidata, nel 1903, al romagnolo Alcibiade Battelli (ancora oggi, quello che fu il suo ufficio, nella via principale del paese, riporta la dicitura, quasi scomparsa: “Lega minatori”), ma i tempi non erano ancora maturi per la contrattazione degli interessi dei lavoratori su un piano di parità con la classe padronale. È chiaro che la Lega fu ostacolata, fin dal suo sorgere, dalla Società francese Malfidano (La Societé anonime desmines de Malfidano), proprietaria dei pozzi di Buggerru, poiché riteneva quella unione di lavoratori, una opposizione organizzata alla sua politica di produzione e di sfruttamento.
In quel fatidico pomeriggio del 4 settembre scoppiò la rivolta, dopo due giornate di sciopero nato spontaneamente, non programmato dalla Lega dei minatori, per l'imposizione del direttore della miniera, l’ingegnere Achille Georgiadés, dell'orario lavorativo invernale a partire dal 2 settembre, anziché dal 1° ottobre, come era consuetudine. Da tempo tra i lavoratori serpeggiavano il malcontento e i malumori; i dissapori erano vecchi e la sopportazione era giunta al limite e, da semplice protesta espressa con timore, il passo per l'irruente ribellione fu breve.
I capitalisti francesi, proprietari della miniera, pretendevano di dettare legge in una terra che intendevano colonizzare e sfruttare fino all'ultimo grammo di minerale. Il salario era esiguo, nemmeno la metà di quanto prendeva un minatore negli Stati Uniti; le ore lavorative erano troppe e mal distribuite, si lavorava d'estate nelle ore di maggior calura e all'esterno della miniera; esisteva, inoltre, il ricatto continuo del licenziamento e della perdita della casa che veniva data in affitto dalla società mineraria.
Gli operai erano, per di più, quasi obbligati a rifornirsi di tutti i generi alimentari in uno spaccio gestito dalla stessa società francese che li provvedeva di libretto, buoni di acquisto e possibilità di dilazione nel pagamento. La vita girava attorno alla Malfidano che, pur con agevolazioni ai lavoratori, aveva organizzato un giro vizioso del denaro che rientrava pur sempre nel suo bilancio.
In quel clima di forzato mal vivere la ribellione sfociò spontaneamente e il 4 settembre, per una banale rivalsa all'orario di lavoro, tre uomini persero la vita sotto i colpi dei fucili dei soldati della 42a fanteria cagliaritana (arrivati la mattina di quella tragica domenica con la speranza di porre ordine senza spargimento di sangue). I minatori, esasperati, avevano colpito con delle pietre le guardie, la tensione della conflittualità esacerbò tutti e dalle armi dei soldati partirono dei colpi.
A seguito di questo drammatico fatto i lavoratori italiani, guidati dai socialisti rivoluzionari, proclamarono il primo sciopero generale italiano. Per quattro giorni ampie fasce di lavoratori italiani incrociarono le braccia: diversi giornali non uscirono, parecchie fabbriche si fermarono e persino i gondolieri a Venezia fermarono le loro gondole.
Agli inizi del Novecento Buggerru contava circa 8500 abitanti (oggi ne ha poco più di 1.100, tra i quali alcune centinaia di disoccupati e di pensionati). Il turismo stagionale non risolve del tutto i problemi di questa piccola comunità che vede ancora ridursi la sua forza lavorativa per l'emigrazione dei giovani nel resto d’Italia o all'estero.
Un secolo fa i Buggerrai subivano lo sfruttamento padronale e classista. Oggi, nonostante il turismo ne abbia in parte cambiato il volto, il paese subisce la crisi economica e la conseguente disoccupazione.
Dopo la decadenza del latino come veicolo di comunicazione universale per l’Europa nascono, come è ben noto, le undici lingue neolatine o romanze e, per la loro origine e diffusione tra il popolo più che tra i dotti, “volgari”: l’italiano, il francese, lo spagnolo castigliano, il catalano … C’é stato un momento in cui a dominare è stato, sorprendentemente, il provenzale oggi quasi dimenticato, adoperato sì nel Sud della Francia come fa capire il nome, ma diffuso tra le persone colte delle aree confinanti (Italia e Francia del Nord e non solo) a prova della superiorità di una cultura decisamente più raffinata e matura, che ha posto le fondamenta dell’”architettura” romanica.
Le opere poetiche in provenzale, scritte tra il 1100 e il 1200 da autori di lingua madre, o da veneti, toscani, liguri, francesi potevano essere, come nella storia mondiale della poesia, liriche d’amore, inni alla bellezza femminile o alla natura, compianti di defunti, ma, in quel genere che fu chiamato “sirventese”, a intendere che quelle opere venivano commissionate, esse divenivano dei veri e propri capitoletti di cronaca del tempo, quando ancora non esistevano quotidiani, rotocalchi o, meno che mai, i mezzi di comunicazione di massa degli ultimi due secoli della nostra epoca.
Vi si leggono lodi al proprio signore, si rievocano imprese compiute, anche per rivendicare meriti presso il potente del momento, si espongono giudizi personali e politici, e consigli di condotta in situazioni di tensione internazionale.
Tra le innumerevoli produzioni di questa categoria, almeno una decina ci riporta notizie sulla storia della Sardegna giudicale, che in quella fascia di decenni vedeva la presenza di personaggi provenienti dal mondo “continentale” ai vertici dello stato, ma anche all’apice della loro fama.
Nino Visconti, ultimo Giudice di Gallura, fu, si sa, ricordato da Dante nel Purgatorio, dove l’Autore lo aveva collocato in quanto non proprio perfetto nella sua azione di governo; e Guglielmo Marchese di Massa e Giudice di Cagliari si rese famoso, da un lato, per la determinazione e l’acume politico con cui portò il suo stato a insuperata potenza, dall’altro, per l’aggressività e la crudeltà: attaccò, in anni diversi, tutti e tre gli altri Giudicati, e fu lui che, invaso il Logudoro ed espugnato il Castello del Goceano a Burgos, violentò Prunisinda, la moglie del Giudice Costantino II. In queste imprese, si appoggiò, a seconda delle convenienze, a Pisa o a Genova, all’epoca della sua sovranità (1190-1214) invece, costantemente e ferocemente nemiche.
La poesia che riporta a noi il “Juge de Galur”, cioè Nino Visconti Giudice di Gallura, è, più esattamente una “cobla”, un componimento in due parti firmato da un giullare anonimo: ricordiamo che anche i giullari, come i trovatori, sono tipici rappresentanti della cultura provenzale. Questo autore elogia nella prima parte il “Juge” destinatario per la sua generosità e altre doti meritevoli, ma nella seconda lo rimprovera blandamente di non aver più trattato con benevolenza il suo giullare, che in coscienza sa di non avergli fatto alcun torto. Insomma, una richiesta di “riassunzione al lavoro”. È sorprendente che in quelle corti giudicali, che ci immagineremmo povere e spartane, vi fossero presenze analoghe a quelle delle ben più famose, per sfarzo e vita culturale, corti dei Signori italiani, francesi o dei Conti di Savoia…
Hanno invece una firma ben nota i tre sirventesi dove si parla del Giudice Guglielmo: Peire de la Caravana, Peire Vidal ed Elia Cairel. I primi due ne cantano le lodi, il terzo, come vedremo subito, è di avviso contrario.
Nel momento in cui l’imperatore tedesco Arrigo VI, figlio di Federico Barbarossa, calava in Italia per ripetere i tentativi di affermazione di potere del padre su un Italia divisa in mille staterelli, Peire de la Caravana esortava gli italiani, da lui chiamati “Lombart”, a tener duro di fronte a questa invasione tedesca e, tra i “Lombardi” cui si rivolge, troviamo bolognesi, Veronesi, Milanesi naturalmente, ma dice anche:
Deus sal en Sardegna
Mon Malgrat-de-totz
«Dio salvi in Sardegna un certo Signor “Malgrado Tutti”» che nobilmente vive, valoroso e generoso più di ogni altro Cristiano … Fu Enrico Besta, all’inizio del XX secolo, a capire che questo soprannome, che ha un sapore di ferrea volontà e decisione, non poteva che riferirsi al Giudice cagliaritano: le calate di Arrigo VI avvennero nel 1191, nel 1194 e nel 1196, e Guglielmo aderì alla Lega antimperiale nel 1195, anche perché l’imperatore lo aveva espropriato del feudo di Massa, assegnandolo a un suo fedele.
Peire Vidal, nativo di Tolosa, ma girovago tra Provenza, Italia e Terrasanta, si spinge sino a dichiarare che manderà personalmente a Guglielmo, da lui chiamato il “pro Marques de Sardenha” «prode Marchese di Sardegna, che vive con gioia e con senno regna»: questi, racconta Vidal, è al momento dalle parti di Mongibello, quindi in Sicilia, e siamo dopo il 19 dicembre 1205, quando Siracusa, strappata ai genovesi dai pisani nel 1204, è, con un energico contrattacco, riconquistata dai liguri e dai loro alleati: evidentemente anche il Giudice di Cagliari, qui definito potente, ospitale e dal «gioioso tenor di vita», diede il suo contributo, esponendosi di persona.
Elias Cairel, giunto cronologicamente poco dopo Vidal e la Caravana, inverte con alcune rime incalzanti le positive affermazioni di questi ultimi:
Lo Marques de Massa cassa
Bon pretz, on q’el lo consegua;
Et totz lo mons vuoill q’entenda
Que sa valors sembla febre.
«Il Marchese di Massa» scrive «getta via ogni suo buon pregio» e, quanto ai suoi atti di valore, sostiene, «voglio che tutto il mondo sappia» che sembrano piuttosto sintomi di febbre.
E ancora, in altre poesie si possono leggere celebrazioni dell’avvenenza di dame sarde sempre di epoca giudicale, tra cui Adelasia figlia dello stesso Guglielmo, e un tal “Bruna la gracida” (la graziosa) che, si dice esplicitamente, si presenta ad un immaginario concorso di bellezza provenendo da “Castel”: Castel di Castro, Cagliari.
BIBLIOGRAFIA
Poesie provenzali storiche relative all’Italia, nella collana Fonti per la storia d’Italia, Istituto storico per il Medio Evo, a cura di V. De Bartolomeis, 2 volumi, Roma, Tipografia del Senato, 1931
Enrico BESTA, La Sardegna medioevale, Palermo 1908-1909, ristampa anastatica della Forni, Bologna, 1966 e anni successivi.
Il 10 luglio scorso è stata inaugurata a Cagliari, presso il Lazzaretto di Sant’Elia, la mostra “Vele, Tonni e Scimitarre” che prende spunto da alcuni, in realtà pochissimi, riferimenti alla Sardegna presenti nelle opere di Emilio Salgari, molto più noto e letto nei suoi cicli di romanzi “malesi”, “africani”, “western” e così via, o ambientati in un’Australia ancora nell’infanzia della sua storia, o infine fantascientifici.
Essenzialmente, gli scritti salgariani dove terre e figli della Sardegna hanno parte da protagonisti sono due: il romanzo “Le Pantere di Algeri”, e un opuscolo divenuto introvabile anche in antiquariato librario, “La pesca dei tonni”.
Il primo è ambientato tra Cagliari, Sant’Antioco, San Pietro e, naturalmente, l’Algeria. L’eroina principale è una giovane nobildonna che viene rapita dai corsari nordafricani dal suo (inesistente nella realtà) castello di Santafiora, e che il devoto fidanzato, il Barone di Sant’Elmo, un Cavaliere di Malta, riesce a liberare dopo una serie di animate peripezie.
Il secondo si potrebbe definire un “documentario cartaceo”, perché, basandosi su studi enciclopedici e su impressioni e su “sentito dire”, il bravo compositore di romanzi avventurosi (che mai viaggiò fuori dell’Italia settentrionale) descrive una tonnara che egli ambienta non, come avrebbe potuto, a Carloforte, ma, sembrerebbe, tra Bosa e Alghero, aggiungendo pennellate sui pescatori sardi alti, larghi di spalle, muscolosissimi, bruni come Africani…
Il percorso della mostra, che inizia con una porta d’ingresso costituita da una tenda che riproduce la copertina a colori di quest’ultimo scritto, si avvia proprio sulle tonnare: vi si può vedere una carrellata di fotografie dell’ultima mattanza carlofortina, scattate da Giovanni Manca, e anche un filmato degli anni ’60 sullo stesso argomento.
Nell’avventura tra “vele e scimitarre” si entra invece nella sala successiva: qui, dipinti di battaglie navali tra Cristiani e Barbareschi, modellini di navi, ritratti di famosi Cavalieri di Malta della stessa epoca dell’immaginario fidanzato della Contessina di Santafiora (prima metà del ‘600, dice la trama de “Le Pantere”) e armi bianche e da sparo, rigorosamente a pietra focaia. Appena più in fondo, si sentono da dietro una tenda grida, spari, tintinnii di metallo: una saletta cinematografica arredata con comodi sedili “orientali” cubici ben imbottiti dove si possono vedere spezzoni di film di pirati degli anni ’40 e ‘ 50 e stralci dai vari “Sandokan” televisivi.
Il piano di sopra offre ancora sorprese: uno schermo interattivo su cui si possono “sfogliare” le pagine di una versione a fumetti de “Le Pantere di Algeri” del lontano 1955, gioielli nordafricani, cartine della Sardegna dei secoli passati, e suggestivi dipinti con scene di vita maghrebina di Donatella Ribezzo.
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