Monica Aschieri, “Un vita in vena”, Zonza Editrice 2007
Troppo facile classificarla come la nuova Cristiane F. dello “zoo di Berlino”. In realtà Monica Aschieri, in questo libro-diario che ripercorre la sua vita dal 1982 al 2003, racconta più un viaggio interiore che una nuda cronaca di droga che segnò la sua vita per vent’anni.
Proveniente da una famiglia “bene” di Cagliari, a 19 anni già madre di una bambina che verrà presto affidata ai genitori, girovaga per la città e l’Italia infiammata dall’astinenza e dal bisogno del metadone, affronta tentativi di recupero e struggenti e problematici rapporti con la famiglia d’origine. Tornata in Sardegna, Monica entra definitivamente in un giro di commercio e soprattutto di consumo di eroina e altre sostanze che la renderanno completamente schiava (tremende ma necessarie le descrizioni della devastazione fisica) e disposta anche a gestire il traffico quando il suo compagno, boss del quartiere CEP affiliato alla malavita nazionale, finisce in carcere.
I temi fondamentali del diario sono quelli classici della perdizione-redenzione: la discesa agli inferi, i rapporti di grande problematicità con la famiglia e con il padre descritti impietosamente, la continua richiesta di amore e considerazione che mina le fondamenta della sua personalità, il collasso fisico e psicologico e l’incontro con Dio e un’altra vita possibile. In tutto questo -una girandola di buchi, denaro, tentativi di disintossicazione, sangue e promesse non mantenute- le uniche cose buone sono la figlia lontana e il suo compagno, vera bussola della sua vita e personaggio complesso, fatto di luci e ombre.
La forma diaristica accentua il realismo della narrazione, ma rende difficoltosa la comprensione degli eventi: forse, sarebbe stata utile un’ appendice biografica vera e propria che aiutasse a collocare meglio i fatti. Anche così, però, il libro è sconvolgente e sincero, non soltanto una storia di droga, ma anche quella di un grande amore che dura una vita intera, interrotto soltanto dalla morte. Fortunatamente, il processo di perdizione si conclude con una lenta redenzione e persino con un avvicinamento alla fede che la porta a fare i conti con il dolore sofferto e provocato alla famiglia.
L’autrice, oggi disintossicata, e la sua famiglia sono molto conosciuti e il rischio è che la curiosità suscitata da una storia così forte e realistica, che oltretutto racconta una Cagliari “parallela”, metta in ombra il messaggio che, forse inconsapevolmente, la Aschieri vuole trasmettere: le persone non sono e non è possibile che siano soltanto “buone” e “giuste” o, all’opposto, solo “cattive” e la discesa all’inferno può avere anche un ritorno.
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