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Scrivere per dialogare col mistero

Rassegna stampa | La Nuova Sardegna | Dom, 30 Settembre 2007
Pubblichiamo una parte dell´intervista di Costantino Cossu a Salvatore Mannuzzu contenuta nel libro «Giobbe» (Edizioni Della Torre) in libreria da ieri, apparsa per la prima volte nell´aprole 2007 sulla rivista diretta da Goffredo Fofi «Lo Straniero».

- La fede e la paura. Lei scrive che «l´antitesi della fede è la paura, più ancora del dubbio».
«Il dubbio è nella natura delle cose di cui stiamo parlando. Io però gli sono particolarmente affezionato: oltre la sua misura logica. Quando scrivo mi viene di partire dall´oscurità, da ciò che non so. Forse una storia si può raccontare in due modi: partendo da ciò che si sa o partendo da ciò che non si sa. Io parto sempre da ciò che non so. Non tanto per mia scelta, quanto proprio per come sono e sono diventato. È difficile non essere se stessi; guai se si cerca di imbrogliare le carte. Non dico che ci si deve accettare, ma insomma... almeno ci si deve adoperare, per quello che si è e non per quello che non si è.
Chiudiamo la digressione, lei mi domanda della fede e della paura. La fede è gioia. Una fede vera, coerente, non può che essere gioia. Se uno crede in Dio gli deve bastare (e avanzare, traboccando: «Io non sono solo, perché il Padre è con me», Vangelo di Giovanni). Il fatto che non gli basti è segno che la sua fede non è salda, non è piena. Ricordiamo Gesù nell´orto del Getsemani? Il tentatore, dopo i quaranta giorni del deserto, gli ha dato appuntamento lì: e uno dei suoi argomenti, lì, è la paura. Ma Gesù vince la paura, con sudore di sangue, mettendosi nelle mani del Padre: affidandosi alla volontà e alla verità del Padre.
Così anche noi se avessimo fede non dovremmo cedere alla paura. Ci dovremmo mettere nelle mani del nostro Dio e lasciargli fare di noi quello che vuole, essendone felici. Io guardo in particolare all´esempio d´una santa che mi è cara, la piccola Teresa di Lisieux. Alla fine della sua breve vita si è messa nelle mani di Gesù, s´è lasciata fare da lui ciò che lui voleva.
Ma per noi che santi non siamo, la paura è una tentazione continua. La paura come sconfitta del dubbio, resa del dubbio all´oscurità totale, al nulla. Il dubbio mantiene un rapporto - un dilaniante rapporto - con la verità. La paura tende a cancellare una volta per tutte questo rapporto: vuol impedirci di continuare a cercare. Io provo paura sempre più spesso e sempre di più: questo in cui viviamo mi sembra un mondo terribile. Benché io non sappia se ci siano mai stati mondi migliori. Probabilmente non ci sono mai stati. Sono spaventato da ciò che capita a me e da ciò che capita a tutti. Mi sembra una vita veramente... mi sembra che vivere sia molto pesante: la valle di lacrime, lacrimarum vallis, del Salve Regina».
- Per non cedere alla paura Gesù prega...
«La preghiera ha una radice etimologica parente della parola latina ´precarius´: ´ottenuto per favore´, ´dipendente dalla volontà altrui´; in senso traslato, ´incerto´, ´malsicuro´, ´precario´ appunto. Si prega perché si versa in condizioni precarie, perché ci si sente vacillanti, sospesi nel vuoto, al buio, privi di amore quando invece si ha un tremendo bisogno d´amore e di luce. Le sofferenze, le prove che ci fanno sbattere il viso sulla nostra vita senza scampo, Dio ce le manda per aiutarci, per chiamarci a sé. Così lui ripulisce i tralci di vite che noi siamo, perché diamo più frutto, dice il Vangelo di Giovanni. La letteratura è la presa d´atto, in modi specifici, del nostro comune stato di precarietà e incompletezza. In quei modi specifici, quindi è anche una sorta di preghiera».
- Giobbe più che pregare combatte con Dio...
«La lotta con Dio è uno dei modi della fede. Anche Maria, nei Vangeli, qualche volta combatte col figlio. Non lo capisce. Uno degli approcci con Dio è chiedergli conto di ciò che non capiamo di lui. Con domande anche conflittuali: che però stanno sul terreno del dubbio (se mai), non su quello della paura. (E Maria, umile e ostinata, con Gesù può perfino averla vinta: alle nozze di Cana).
Nel tratto della mia vita che oggi percorro, Dio m´interessa molto di più della letteratura. Però in genere uno scrive non perché crede ma perché non crede. La spinta, l´abbiamo detto, viene dal senso d´incompletezza, dalla coscienza di una condizione generale di limite, di sofferenza. Molto aggravata dall´amore: dall´amore paradossale che noi abbiamo per questa nostra stessa misera condizione. Chi scrive ama: persone e cose che non ci sono più, persone e cose che ci sono ancora. Ama cioè le storie che racconta, i loro personaggi, quel che ne è rimasto, quel che può rimanerne, l´intera memoria del tempo narrato. Se non ci fosse l´amore non si scriverebbe. Amore e privazione d´amore. È l´intensità, l´incandescenza di questo amore che ne fa insopportabile il fallimento.
Ecco, questo credo sia la scrittura. Giobbe ha un insoddisfatto amore per la vita. Ama la sua condizione d´uomo e d´un tratto se la vede devastata: si ritrova seduto sulla cenere, a grattarsi le piaghe con un coccio. Ciò che colpisce in lui è che non chiede tanto la fine delle sue sofferenze, la restituzione della condizione felice di prima. Giobbe chiede il perché. Il perché del dolore, del male. E come Dio tace, lui non si stanca di chiedere, non si rassegna mai. Continua a lottare con Dio finché Dio non gli compare. Che Dio compaia è, in un certo senso, il lieto fine della storia. Ma non sta qui il punto. Potrebbe anche, Dio, non comparire mai e non dare mai alcuna spiegazione. Giobbe continuerebbe sino alla morte a chiedere perché».
- Ed è quello che in fondo facciamo tutti...
«Me lo auguro che lo facciamo tutti. Perché l´alternativa è stancarci di chiedere: accontentandoci magari della nostra scontentezza. Senza cercare di ricavarne un frutto. Ricorda la parabola evangelica dei talenti? La parabola su ciò che ci è stato dato e dobbiamo mettere a frutto altrimenti siamo in peccato? Ecco, uno dei talenti che abbiamo ricevuto, forse il più grande di tutti, è la scontentezza: sì, l´infelicità, la sventura. Questo è il nostro dono ultimo e più importante, con la benedizione di Dio. E questo ci dice Giobbe: arrendersi di fronte alla nostra condizione di precarietà senza investirla in vita, senza investirla in domande di senso, è una tentazione fortissima, alla quale non si deve cedere mai (e alla quale, invece, spesso noi cediamo)».


Il libro  
Salvatore Mannuzzu

Giobbe


Cagliari, Edizioni Della Torre
2007, pp. 96, Saggistica
Euro 9,00
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