Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
La raccolta nasce da un concorso letterario organizzato nel 2006 dal circolo culturale “Miele amaro” di Cagliari. E proprio la “Città del Maestrale” è il filo conduttore di questi 16 racconti, tra i quali 9 sono stati selezionati tra i 40 partecipanti, 6 invece sono stati scritti da altrettanti autori già affermati: Paolo Maccioni, Fiorella Ferruzzi, Gianluca Floris, Nino Nonnis, Giuseppe Pusceddu e Salvatore Pinna.
L’ultimo, Diana Blues, è un esperimento letterario promosso da “Miele amaro”: si tratta di una avventura “open source” di Catfish, il dj-investigatore creato da Francesco Abate e Massimo Carlotto. I lettori hanno cioè potuto scrivere in forma libera e partecipata la nuova storia di Catfish.
La città di Cagliari è lo sfondo delle storie ma spesso ne è anche diretta protagonista, con i suoi quartieri, il suo slang e i suoi “tipi umani”, e i suoi luoghi dell’anima: si vedano a questo proposito la signora Isia, fioraia a San Michele, dell’esordiente Andrea Serra e la storia nero-immobiliare di Paolo Maccioni.
Il bello del “noir” sta nelle sue numerose sfaccettature, molte delle quali presenti in questa raccolta che vede contributi di alta qualità anche negli esordienti: il racconto nerissimo (e ottimo) di Laura Mattana si accompagna, ad esempio, alla sottile malinconia del Telefono Amico della Ferruzzi o al simpatico magistrato di Gianluca Floris. Che poi la Sardegna contemporanea produca soprattutto scrittori noir o gialli (che siano nuovi o già conosciuti sta semplicemente a indicare la durata nel tempo del fenomeno), comunque spesso impropriamente detti di “genere”, è domanda-non domanda interessante. Ci sarà una specificità isolana, arditamente definita “nouvelle vague” sarda, o ci piace solamente crederlo? Non sarà, semmai, che pochi “generi” (definizione riduttiva per uno stile multiforme come quello in oggetto) sono, semplicemente, scrivibili, leggibili e godibili quanto la narrativa noir?
L’esperimento di Nero Cagliari e Dintorni ha certo il merito di essere, rispetto ad analoghi tentativi, di buona qualità e di rivelare nuovi aspetti di una città che credevamo di conoscere già benissimo, ma nella quale si muovono, evidentemente in incognito, moltissimi scrittori al di sopra di ogni sospetto.
Un intrigo letterario raffinato, intenzionalmente colto nella scelta dell’ambientazione, in un gioco del domino di letture e scritture che porteranno il lettore verso la soluzione del “giallo”, a cui nulla manca: l’intrigo, l’amore infelice, le doppie identità, l’ambientazione gotica, la dark lady e l’ingenua protagonista (che tanto ingenua non è).
Il primo romanzo di Annalena Manca, sassarese trapiantata a Roma, racconta una storia che solo apparentemente sembra tratta da un romanzo d’appendice, con tanto di giovane orfana che agli inizi del Novecento viene assunta da una nobile famiglia di Napoli per badare ai cinque figli, in realtà per scrivere la storia della famiglia.
Anche la giovane protagonista Teresa Senzabene, però, nasconde un segreto, che è proprio il motivo per il quale è stata chiamata a svolgere quel compito nella casa della misteriosa baronessa-pittrice Maddalena. I frequenti rimandi presente-passato svelano poco a poco la trama di un mystery molto “letterario”, perché di libri si parla, e di scrittori e di storie: le vicende incrociate della protagonista e del suo passato si intrecciano con quella della famiglia dei baroni di Falcialunga, in una atmosfera gotica che arriva fin quasi ai giorni nostri.
Chi ha amato un libro come “Possessione” di Antonia Byatt, coltissimo giallo letterario basato su figure mitiche come gli pseudo-biblia e sulla ricerca bibliografica, apprezzerà L’Accademia degli scrittori muti: infinitamente più lineare nella scrittura, originale e non scontato nel finale, dimostra come anche un libro o una lettera, talvolta, possono essere il corpo del reato.
Dabolina è stato il leit-motiv degli anni '90, e molti se li ricordano bene, quegli anni di discoteche, cappuccino e cornetto all’alba e una movida cagliaritana per molti versi insospettabile, o forse appena visibile sotto la superficie di sabati (ma anche giovedi e venerdi) in fondo tutti uguali.
Un titolo molto efficace per questo romanzo di Francesco Abate, giornalista e disc jockey conosciuto col nome di Frisco. Il luogo mai chiaramente indicato è ovviamente la Sardegna, in particolare Cagliari e le sue coste, meta delle migrazioni notturne di massa del divertimento estivo. Sono infatti riconoscibilissimi nella narrazione i ritrovi della ex gioventù cagliaritana, accasata e imborghesita quanto basta per giustificare ai propri e altrui occhi una esistenza parallela fatta di nottate in discoteca e avventure varie ed eventuali in compagnia della Family (proprio così, all’americana), ad indicare il gruppo che accompagna il protagonista, avvocato di giorno e dj la notte, nel lavoro alla consolle.
Proprio nella scelta dei protagonisti è evidente la volontà di farne degli esempi, degli archetipi quasi: agli improbabili nomi come Furio e al melting pot etnico perlomeno inusuale per una Cagliari che immaginavamo più provinciale si accompagna il chiaro intento di tracciare una storia “diversa” da quella prevedibile e sonnolenta di una “capitale” in realtà schiava delle proprie abitudini tranquillizzanti e un po’ piccine: il bagno al Poetto, il weekend alla “villetta” al mare, il caldo soffocante di certi pomeriggi, la rosticceria sotto casa e così via.
La vita scorre e la bella stagione è appena cominciata quando un omicidio incrina l’oliata macchina della Family dell’avvocato Grimaldi e i problemi di ognuno dei componenti esplodono.
Il romanzo – niente a che vedere con il filone noir sardo, qui predomina la narrazione in sé piuttosto che la soluzione del giallo- si legge benissimo, nonostante o forse proprio per lo stile semplice e diretto senza grandi introspezioni ma con un po’ di cattiveria non scontata. L’elemento interessante di questo “remix” è che si tratta della riscrittura del romanzo originale pubblicato da Castelvecchi nel 1998, con la sovrapposizione di una nuova trama che fa partire il libro dall’adolescenza dei protagonisti e un finale diverso.
Dopo il primo Mister Dabolina Francesco Abate ha scritto alcuni altri libri, di ambientazione diversa ma accomunati dalla presenza di personaggi in chiaroscuro, mai soltanto cattivi e mai solo “risolti”: ricetta efficace per non rendere prevedibile la narrazione, che è poi quello che si chiede a una buona storia.
S’Acabadora. È ora di finirla? di Toni Soggiu, (postfazione di Antoni Arca, Condaghes, Cagliari, 2010, pp. 105, Collana “Contos e Amentos”), fin dalla sua uscita non ha mancato di suscitare molte polemiche, sulla scia del romanzo di Michela Murgia, dal titolo omonimo, ma stavolta con due c e senza l’articolo, vincitrice un po’ a sorpresa, del premio Campiello 2010, edito da Einaudi nel 2009 per la collana “Supercoralli” ma soprattutto per il lavoro di Dolores Turchi, dal titolo: Ho visto agire s’accabadora, la prima testimonianza oculare di una persona vivente sull’operato de s’accabadora, Iris, Oliena, 2008.
Il Soggiu confuta punto per punto tutta una serie di credenze e luoghi comuni e, tra le righe, chi in buona fede o cavalcando la leggenda vuol dimostrare che questa, diciamo così, particolare figura professionale fosse realmente esistita. Il termine, di derivazione catalana, sarebbe stato introdotto nel tardo Medioevo e quindi già in contraddizione con chi fa risalire tale macabro “rituale” alla notte dei tempi.
Secondo l’autore, la leggenda de s’acabadora si radicò nell’immaginario collettivo probabilmente per effetto di alcuni romanzi pubblicati nell’Ottocento da Carlo Varese, addirittura alcuni tradotti in inglese e pubblicati a Londra, dai viaggiatori inglesi in Sardegna, nonché da alcune “forzature ideologiche” di Joyce Lussu e Francesco Masala.
Ma le tante obiezioni dell’autore quelle più forti e convincenti, sicuramente, riguardano l’assenza totale di cronache o documenti dell’epoca che trattino di denunce, liti, processi, relativi a eredità contese tra i parenti del defunto.
Il Soggiu insinua anche una latente visione lombrosiana del fenomeno da parte di chi avrebbe interesse a criminalizzare un intero popolo in un’ottica di stampo colonialista.
Personalmente ritengo che i Sardi, per tradizione, abbiano sempre avuto nei confronti degli anziani un rispetto e una considerazione per la loro saggezza ed esperienza. Mi chiedo anche: se si trattava di una sorta di eutanasia perché praticarla solo nei confronti degli anziani e non a tutti coloro che si trovavano in condizioni di salute irreversibili? Ma chi poi può fare tale valutazione? Diciamo che l’eutanasia e l’infanticidio, altro argomento correlato e trattato nella pubblicazione, sono stati praticati, nel bene e nel male, da tutti i popoli indistintamente e non in maniera quasi sistematica e tribale come si vorrebbe far credere.
In conclusione, l’autore sostiene che s’acabadora non sarebbe altro che la Madonna richiamata nelle preghiera dell’Ave Maria, la fine della vita, s’acabu de s’ora in lingua sarda. “Sa femmina accabadora”, la donna chiamata per predisporre le fasi antecedenti la sepoltura.
La postfazione di Antoni Arca, perfettamente in linea con l’analisi dell’autore, risulta anch’essa rigorosa e allo stesso tempo, a tratti ironica, talvolta quasi esilarante contribuendo a renderne piacevole la lettura.
Sa faina literària de Francu Pilloni est beni matuca cun d-una bella pariga de lìburus in sardu e in italianu puru. In cust’òpera noa paricis stòrias currint in su contai de su lìburu po nci torrai, che arrius a mari, totus a su contu de Arega Pon Pon, sa protagonista. Su contu nci ferit fintzas a Amèrica, de susu e de giossu, ndi tòrrat a Casteddu e nci imbatit a una bidda cali si siat a giru de su Monti Arci. E si est giustu e bellu chi is contus in sardu no fueddint sceti de cosa sarda, s’est pràxiu meda chi in custu traballu Casteddu puru nc’apat tentu parti. Contus casteddajus gei nci nd’at ma sa ‘Tzitari’ iat a podi tenni una parti prus manna puru in sa literadura sarda e at fatu beni Pilloni a ddi torrai su logu chi ddi spètat. Seus tra Casteddu de Susu e sa Marina, aundi is poetas si funt chescendi ghetendinci a terra billeteddus cun fueddus scarèscius chi cròsant apari, e a Plàcidu, s’atori printzipali, ddi incapìtat de atobiai a una stràngia chi nci ddu pòrtat a unu logu mai biu e mai connotu. In su interis Arega Pon Pon, piciochedda disdiciada allomingiada Pon Pon po dda stroci, s’agàtat a sola a s’acabu de su mundu, chi est spaciau cumenti no s’emus a abetai mai. Su contu inghìtzat de un’acuntèssiu malu, de una violèntzia e de una morti ma cumenti acostùmat a acadessi, de sa morti etotu ndi tòrrat a nasci sa vida e a Arega mancai malassortada, ddi tòcat a ndi torrai a pesai totu s’umanidadi, finas gràtzias a unu gioghitu nou chi at abritiau impari cun su fillu. Sa famìllia s’amànniat, issa cun Gianu, su fillu, sighint a fai atrus fillus e is fillus aici etotu, una tzivilidadi noa si ndi tòrrat a strantaxai a bellu a bellu, torrendi a imparai totu su chi serbit po si campai. Aici sa vida tòrrat a nasci, òminis e fèminas ndi tòrrant a preni su mundu e Arega Pon Pon benit a essi s’ajaja manna de su mundu nou. Pilloni est unu scridori capassu, chi scit contai e tenit cosa de nai, duas calidadis chi iant a depi caminai sèmpiri paris po fai literadura bona. Sa prosa est sciuta, praxili e fintzas spassiosa candu ddi dexit. Sa lìngua est unu campidanesu literàriu chi s’autori connoscit beni e fatu fatu oberit a is fueddus e a su spìritu de su sardu marmiddesu, colorendiddu de coloris suus particularis chi dd’arrìcant e si ddu faint parri ancora prus biatzu. Cosa chi si praxit meda, chi in d-una standardizatzioni literària ddui siat ancora su logu po is scioberus personalis, po sighiri a amanniai una literadura chi oindi’ no si parit prus aici pitica.
«Il passato è un inganno che ritorna, un tormento, un film che si ripete dentro la mia testa, sempre uguale, come una malattia insidiosa. Una malattia che mi vuota e mi stanca, e che mi ha guastato il cervello. Una malattia che mi ha portato qui, alla Casa Matta, così la chiamiamo noi». È così che ha inizio la narrazione di Oreste, l’io narrante di Vicolo Rosso, ultimo romanzo di Augusto Secchi edito da Condaghes. Lasciandosi cullare dal flusso dei propri ricordi, resi ancora più intensi da una malattia che «scolora le immagini più recenti e tinge di particolari un passato che credevo sepolto», Oreste rivive e condivide un passato storico e personale nostalgico, fatto di rimpianti e sogni svaniti di cui ormai rimane solo una bandiera e una porta murata in Vicolo Rosso, troppo “periferico” rispetto ai luoghi da cui giungevano decisioni e linee da seguire.
Le storie dei compagni Sergio e Stalin, del Profeta, pronipote di Michele Schirru, dell’insolito poeta Giambo e del giovane rivoluzionario Evelino creano un intreccio tra la storia e le loro singole esistenze che confluiranno in un comune declino cullato da ricordi fatti di nostalgia, amarezza e rimpianti per quell’occasione perduta che avrebbe potuto cambiare il corso della storia. A fare da sfondo ai percorsi dei singoli personaggi e a caratterizzarne gesti e umori, c’è Berlinguer in un indimenticabile comizio con gli Inti-illimani, il Gulag e un libro «aperto sull’ultima pagina, le ultime righe sottolineate con tratti forti di matita» lasciato su un tavolo del bar di Stalin, la svolta della Bolognina e la decisione di cambiare il nome al partito, il muro di Berlino e la sensazione di «essere incantati dal nostro stesso fallimento, dal fallimento dei nostri ideali, della nostra storia».
Con il suo romanzo Augusto Secchi dà vita a un flusso di ricordi che costituisce un percorso politico, storico ed emotivo da cui trapela la nostalgia di una coscienza politica che era anche passione e che oggi sembra essersi perduta. Ne è la prova il fatto che insieme ai sogni e agli ideali decadono anche i personaggi, non in grado, o meglio non desiderosi di appoggiare quella “svolta”. Tale flusso, a metà strada fra il monologo interiore e il dialogo con un interlocutore la cui presenza è avvertibile solo nelle parole di Sergio, trova espressione in un linguaggio volutamente lontano dallo standard. Vicolo Rosso cattura l’attenzione del lettore coinvolgendolo in un’atmosfera che lo porterà in un turbinio di riflessioni su declini e debolezze, amicizie, coerenza e messa in discussione della propria sfera privata per ideali politici. «Dove sono gli ideali e i sogni che mi facevano piangere quel giorno ascoltando gli Inti-Illimani e Sergio e Berlinguer abbracciati?». Forse è proprio questo che il lettore si chiederà posando il libro.
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