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 Servizi Bibliografici Sardegna... di Admin
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Un'idea che non sia pericolosa non merita affatto di essere chiamata idea

Oscar Wilde
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Redazione (del 02/03/2011 @ 15:48:33, in Recensioni, linkato 2289 volte)

Ovvero come raccontare i grandi personaggi della storia ai più piccoli, “semplificando” una figura quasi mitologica come quella di Antonio Gramsci attraverso la rilettura fiabesca delle celebri Lettere dal carcere. Per una “legge del contrappasso” buona e “al contrario”, la vocazione pedagogica di Gramsci viene pienamente espressa attraverso le lettere scritte nel periodo terribile delle detenzione, in cui la parola scritta era l’unico punto di contatto con il mondo e gli affetti: la moglie, i figli piccoli, la cognata Tania e la sorella Teresina, nonché la madre e i fratelli.

L’impostazione educativa di Antonio Gramsci, fondata sul primato della “forza di volontà”, l’amore per la disciplina e il lavoro, non è rivolta al bambino in maniera coercitiva e artificiale; egli si rivolge innanzitutto agli educatori, che hanno bisogno, loro sì, “di essere educati”, soprattutto in relazione alle maggiori difficoltà che le bambine incontreranno nel loro percorso di vita (lettera a Giulia del 21 novembre 1927, a Tania del 30 aprile 1928, e successivamente a Carlo e Teresina).

Uno straordinario messaggio di riconoscimento della personalità del bambino, della parità fra i sessi e anche di femminismo ante-litteram, nonché un segnale importante per gli adulti che si accosteranno a questo libro per spiegare ai piccoli lettori (l’età consigliata è dai 7 anni in su) il significato e il contesto storico e umano di ogni fiaba. Antoni Arca compie un eccellente lavoro di veicolazione dei messaggi del pensiero gramsciano, come quello della solidarietà e consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni (ne “Il topo e la montagna”), del “pessimismo della ragione e di ottimismo della volontà”, soprattutto nello studio (nelle lettere alla madre dell’agosto del 1931 e del 1932 ad esempio, sollecita una maggiore attenzione alle cose del mondo, anche quello piccolo di Ghilarza), e della realtà e accettazione dell’imperfezione fisica (l’Antonio-Nino protagonista è un piccolo uomo un po’ gobbetto); correttamente non viene nascosto o edulcorato, ma spiegato, anche il Gramsci padre, lontano fisicamente ed emotivamente dai piccoli figli (“Babbo Babar”).

“I racconti di Nino” è un ottimo libro per i ragazzi, più “pedagogico” che didattico, ma anche per gli adulti, che vi ritroveranno il pensiero di uno dei più importanti intellettuali del Novecento sintetizzato, tradotto con semplicità, quasi un punto di partenza per chi volesse cominciare a conoscere Gramsci.

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Di Redazione (del 02/03/2011 @ 15:42:44, in Recensioni, linkato 3335 volte)

La raccolta nasce da un concorso letterario organizzato nel 2006 dal circolo culturale “Miele amaro” di Cagliari. E proprio la “Città del Maestrale” è il filo conduttore di questi 16 racconti, tra i quali 9 sono stati selezionati tra i 40 partecipanti, 6 invece sono stati scritti da altrettanti autori già affermati: Paolo Maccioni, Fiorella Ferruzzi, Gianluca Floris, Nino Nonnis, Giuseppe Pusceddu e Salvatore Pinna.

L’ultimo, Diana Blues, è un esperimento letterario promosso da “Miele amaro”: si tratta di una avventura “open source” di Catfish, il dj-investigatore creato da Francesco Abate e Massimo Carlotto. I lettori hanno cioè potuto scrivere in forma libera e partecipata la nuova storia di Catfish.

La città di Cagliari è lo sfondo delle storie ma spesso ne è anche diretta protagonista, con i suoi quartieri, il suo slang e i suoi “tipi umani”, e i suoi luoghi dell’anima: si vedano a questo proposito la signora Isia, fioraia a San Michele, dell’esordiente Andrea Serra e la storia nero-immobiliare di Paolo Maccioni.

Il bello del “noir” sta nelle sue numerose sfaccettature, molte delle quali presenti in questa raccolta che vede contributi di alta qualità anche negli esordienti: il racconto nerissimo (e ottimo) di Laura Mattana si accompagna, ad esempio, alla sottile malinconia del Telefono Amico della Ferruzzi o al simpatico magistrato di Gianluca Floris. Che poi la Sardegna contemporanea produca soprattutto scrittori noir o gialli (che siano nuovi o già conosciuti sta semplicemente a indicare la durata nel tempo del fenomeno), comunque spesso impropriamente detti di “genere”, è domanda-non domanda interessante. Ci sarà una specificità isolana, arditamente definita “nouvelle vague” sarda, o ci piace solamente crederlo? Non sarà, semmai, che pochi “generi” (definizione riduttiva per uno stile multiforme come quello in oggetto) sono, semplicemente, scrivibili, leggibili e godibili quanto la narrativa noir?

L’esperimento di Nero Cagliari e Dintorni ha certo il merito di essere, rispetto ad analoghi tentativi, di buona qualità e di rivelare nuovi aspetti di una città che credevamo di conoscere già benissimo, ma nella quale si muovono, evidentemente in incognito, moltissimi scrittori al di sopra di ogni sospetto.

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Un intrigo letterario raffinato, intenzionalmente colto nella scelta dell’ambientazione, in un gioco del domino di letture e scritture che porteranno il lettore verso la soluzione del “giallo”, a cui nulla manca: l’intrigo, l’amore infelice, le doppie identità, l’ambientazione gotica, la dark lady e l’ingenua protagonista (che tanto ingenua non è).

Il primo romanzo di Annalena Manca, sassarese trapiantata a Roma, racconta una storia che solo apparentemente sembra tratta da un romanzo d’appendice, con tanto di giovane orfana che agli inizi del Novecento viene assunta da una nobile famiglia di Napoli per badare ai cinque figli, in realtà per scrivere la storia della famiglia.

Anche la giovane protagonista Teresa Senzabene, però, nasconde un segreto, che è proprio il motivo per il quale è stata chiamata a svolgere quel compito nella casa della misteriosa baronessa-pittrice Maddalena. I frequenti rimandi presente-passato svelano poco a poco la trama di un mystery molto “letterario”, perché di libri si parla, e di scrittori e di storie: le vicende incrociate della protagonista e del suo passato si intrecciano con quella della famiglia dei baroni di Falcialunga, in una atmosfera gotica che arriva fin quasi ai giorni nostri.

Chi ha amato un libro come “Possessione” di Antonia Byatt, coltissimo giallo letterario basato su figure mitiche come gli pseudo-biblia e sulla ricerca bibliografica, apprezzerà L’Accademia degli scrittori muti: infinitamente più lineare nella scrittura, originale e non scontato nel finale, dimostra come anche un libro o una lettera, talvolta, possono essere il corpo del reato.

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Dabolina è stato il leit-motiv degli anni '90, e molti se li ricordano bene, quegli anni di discoteche, cappuccino e cornetto all’alba e una movida cagliaritana per molti versi insospettabile, o forse appena visibile sotto la superficie di sabati (ma anche giovedi e venerdi) in fondo tutti uguali.

Un titolo molto efficace per questo romanzo di Francesco Abate, giornalista e disc jockey conosciuto col nome di Frisco. Il luogo mai chiaramente indicato è ovviamente la Sardegna, in particolare Cagliari e le sue coste, meta delle migrazioni notturne di massa del divertimento estivo. Sono infatti riconoscibilissimi nella narrazione i ritrovi della ex gioventù cagliaritana, accasata e imborghesita quanto basta per giustificare ai propri e altrui occhi una esistenza parallela fatta di nottate in discoteca e avventure varie ed eventuali in compagnia della Family (proprio così, all’americana), ad indicare il gruppo che accompagna il protagonista, avvocato di giorno e dj la notte, nel lavoro alla consolle.

Proprio nella scelta dei protagonisti è evidente la volontà di farne degli esempi, degli archetipi quasi: agli improbabili nomi come Furio e al melting pot etnico perlomeno inusuale per una Cagliari che immaginavamo più provinciale si accompagna il chiaro intento di tracciare una storia “diversa” da quella prevedibile e sonnolenta di una “capitale” in realtà schiava delle proprie abitudini tranquillizzanti e un po’ piccine: il bagno al Poetto, il weekend alla “villetta” al mare, il caldo soffocante di certi pomeriggi, la rosticceria sotto casa e così via.

La vita scorre e la bella stagione è appena cominciata quando un omicidio incrina l’oliata macchina della Family dell’avvocato Grimaldi e i problemi di ognuno dei componenti esplodono.

Il romanzo – niente a che vedere con il filone noir sardo, qui predomina la narrazione in sé piuttosto che la soluzione del giallo- si legge benissimo, nonostante o forse proprio per lo stile semplice e diretto senza grandi introspezioni ma con un po’ di cattiveria non scontata. L’elemento interessante di questo “remix” è che si tratta della riscrittura del romanzo originale pubblicato da Castelvecchi nel 1998, con la sovrapposizione di una nuova trama che fa partire il libro dall’adolescenza dei protagonisti e un finale diverso.

Dopo il primo Mister Dabolina Francesco Abate ha scritto alcuni altri libri, di ambientazione diversa ma accomunati dalla presenza di personaggi in chiaroscuro, mai soltanto cattivi e mai solo “risolti”: ricetta efficace per non rendere prevedibile la narrazione, che è poi quello che si chiede a una buona storia.

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Di Redazione (del 28/02/2011 @ 15:56:04, in Editoria libraria, linkato 5444 volte)

Salvatore Satta nacque a Nuoro nell’estate del 1902. Ultimo figlio del Notaio Salvatore Satta e di Valentina Galfré, frequentò il liceo “Asproni” di Nuoro e conseguì la licenza liceale presso il famoso Istituto “Azuni” di Sassari. Frequentò la Facoltà di Giurisprudenza in diverse città italiane per poi laurearsi presso quella di Sassari.

Tra il 1928 e il 1930, giovanissimo, scrisse il suo primo romanzo “La veranda”, ambientato in un sanatorio dell’Italia settentrionale in cui il Satta si trovava ricoverato. L’atmosfera, già cupa di per sé, come può ben immaginarsi, è resa ancora più cupa e triste dal lento e monotono trascorrere dei giorni caratterizzati da un senso di abbandono e dall’alternarsi nello stato d’animo dei ricoverati, dallo spettro della fine incombente e dalla speranza indefinita e vaga di guarigione. Il manoscritto, ritrovato dopo la sua morte, fu ripubblicato nel 1979 dopo il successo de “Il giorno del giudizio”. Il Satta partecipò nel 1928 al Premio Viareggio presentando appunto “La veranda”. Mario Moretti, uno dei giurati, ne fu subito entusiasta, paragonandolo alla Montagna incantata di Thomas Man. Ma la giuria lo ritenne, dato l’argomento, improponibile per il pubblico italiano, in un’epoca in cui la malattia era vissuta quasi come un disvalore.

Deluso, decise di dedicare le sue energie allo studio del diritto, diventando ben presto docente universitario e giurista di fama europea nel campo del Diritto processuale civile. Insegnò presso le università di Padova, Genova, Trieste e, principalmente, Roma. Pubblicò numerosi lavori di carattere giuridico di respiro europeo che gli conferirono ampia notorietà nel settore. Tra il 1944 e il 1945 scrisse il “De Profundis”, delle riflessioni amare sulla fine del fascismo e sugli orrori della guerra.

Nel 1970 iniziò la stesura de “Il giorno del giudizio”, che terminò nel 1974, a un anno dalla morte avvenuta il 19 aprile del 1975. Il romanzo fu pubblicato postumo nel 1977 dalla Casa editrice Cedam, specializzata in testi giuridici. Ma il successo dell’opera arrivò con la successiva pubblicazione, avvenuta nel 1979 con l’Adelphi. Si rivelò uno scrittore di grandissimo talento, divenendo ben presto un caso letterario senza precedenti, tradotto in ben 17 lingue, e può essere considerato tra gli scrittori più significativi del Novecento. “Il giorno del giudizio” narra la storia di una famiglia; la sua famiglia, vissuta a Nuoro tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale. Il romanzo, caratterizzato dalle atmosfere cupe e tenebrose tipiche dell’autore, induce il lettore alla riflessione sul senso dell’esistenza e sull’ineluttabilità della vita, attraverso lo sfilare di personaggi con i loro vizi e le loro virtù, offrendo un vivido affresco della Nuoro dell’epoca. Riflette, inoltre, tramite i suoi personaggi, il conservatorismo dell’autore, angosciato dal dilagare delle manifestazioni operaie e studentesche scaturite nei primi anni Settanta e dalle conquiste sociali ad esse connesse quali, in primis, il divorzio, la scuola di massa e le innovazioni normative in ambito lavoro. Non mancarono i malumori dei nuoresi che si sentirono rappresentati nelle pagine del romanzo e le critiche di chi riteneva riduttivo focalizzare le vicende narrate quasi esclusivamente sulla borghesia e non l’insieme della società.

Bibliografia ragionata

Salvatore Satta, De Profundis, Padova, Cedam,1948

Salvatore Satta, De Profundis, Milano, Adelphi, 1980

Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, Padova, Cedam, 1977

Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, Milano, Adelphi 1979

Salvatore Satta, La Veranda, Milano, Adelphi, 1981

Salvatore Satta, Il mistero del processo, Milano, Adelphi, 1994

Vanna Gazzola Stacchini, Come in un giudizio, vita di Salvatore Satta, Roma, Donzelli, 2002

Salvatore Satta, la Veranda, Nuoro, Illisso, 2002

Salvatore Satta, De Profundis, Nuoro, Illisso, 2003

Salvatore satta, Il giorno del giudizio, Nuoro, Il Maestrale, 2006

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S’Acabadora. È ora di finirla? di Toni Soggiu, (postfazione di Antoni Arca, Condaghes, Cagliari, 2010, pp. 105, Collana “Contos e Amentos”), fin dalla sua uscita non ha mancato di suscitare molte polemiche, sulla scia del romanzo di Michela Murgia, dal titolo omonimo, ma stavolta con due c e senza l’articolo, vincitrice un po’ a sorpresa, del premio Campiello 2010, edito da Einaudi nel 2009 per la collana “Supercoralli” ma soprattutto per il lavoro di Dolores Turchi, dal titolo: Ho visto agire s’accabadora, la prima testimonianza oculare di una persona vivente sull’operato de s’accabadora, Iris, Oliena, 2008.

Il Soggiu confuta punto per punto tutta una serie di credenze e luoghi comuni e, tra le righe, chi in buona fede o cavalcando la leggenda vuol dimostrare che questa, diciamo così, particolare figura professionale fosse realmente esistita. Il termine, di derivazione catalana, sarebbe stato introdotto nel tardo Medioevo e quindi già in contraddizione con chi fa risalire tale macabro “rituale” alla notte dei tempi.

Secondo l’autore, la leggenda de s’acabadora si radicò nell’immaginario collettivo probabilmente per effetto di alcuni romanzi pubblicati nell’Ottocento da Carlo Varese, addirittura alcuni tradotti in inglese e pubblicati a Londra, dai viaggiatori inglesi in Sardegna, nonché da alcune “forzature ideologiche” di Joyce Lussu e Francesco Masala.

Ma le tante obiezioni dell’autore quelle più forti e convincenti, sicuramente, riguardano l’assenza totale di cronache o documenti dell’epoca che trattino di denunce, liti, processi, relativi a eredità contese tra i parenti del defunto.

Il Soggiu insinua anche una latente visione lombrosiana del fenomeno da parte di chi avrebbe interesse a criminalizzare un intero popolo in un’ottica di stampo colonialista.

Personalmente ritengo che i Sardi, per tradizione, abbiano sempre avuto nei confronti degli anziani un rispetto e una considerazione per la loro saggezza ed esperienza. Mi chiedo anche: se si trattava di una sorta di eutanasia perché praticarla solo nei confronti degli anziani e non a tutti coloro che si trovavano in condizioni di salute irreversibili? Ma chi poi può fare tale valutazione? Diciamo che l’eutanasia e l’infanticidio, altro argomento correlato e trattato nella pubblicazione, sono stati praticati, nel bene e nel male, da tutti i popoli indistintamente e non in maniera quasi sistematica e tribale come si vorrebbe far credere.

In conclusione, l’autore sostiene che s’acabadora non sarebbe altro che la Madonna richiamata nelle preghiera dell’Ave Maria, la fine della vita, s’acabu de s’ora in lingua sarda. “Sa femmina accabadora”, la donna chiamata per predisporre le fasi antecedenti la sepoltura.

La postfazione di Antoni Arca, perfettamente in linea con l’analisi dell’autore, risulta anch’essa rigorosa e allo stesso tempo, a tratti ironica, talvolta quasi esilarante contribuendo a renderne piacevole la lettura.

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Di Redazione (del 28/02/2011 @ 01:31:03, in Interviste, linkato 1403 volte)

Il suo libro “Sante & Sciamane” racconta le “cose di donne”, le esperienze più intense dell’universo femminile, come la maternità. Ha tratto ispirazione più dallo studio e dall’osservazione o dalla sua esperienza personale?

Nonostante dall’età di vent’anni io abbia sempre lavorato nel campo artistico, sono una donna che ha vissuto la maternità e la cura della casa e della famiglia come attività principale della propria esistenza, proprio come accade a moltissime altre donne. La differenza sta nel fatto che ho sempre una visione artistica della realtà e in tutto ciò che faccio e che vedo fare dagli altri, osservo e analizzo le analogie e le differenze per trarre un insegnamento che possa essere utile a me stessa ma possa anche essere comunicato in forma artistica e sia dunque utile anche agli altri.

Secondo Lei esiste davvero il sentimento della “sorellanza” fra donne o è vero piuttosto che la competizione è sempre spietata, in ogni ambito della vita, più che fra gli uomini?

Si può parlare piuttosto di solidarietà tra donne finalizzata al miglior rendimento del servizio che la donna un tempo rendeva alla società: l’iniziazione ai misteri della riproduzione, il parto, la cura dei bambini; oggi questo manca per via dei mutamenti sociali. Essendo oggi diventata la donna un soggetto sociale, e non un oggetto, come individuo la donna sta scoprendo la sorellanza così come gli uomini scoprono la fraternità; ma questi sono valori che dobbiamo ancora conquistare. Fino a che l’obiettivo dell’individuo sarà il potere, esisterà la competitività. Comunque questa è sempre stata notoriamente maggiore tra le donne, forse perché gli uomini sulla piazza sono sempre stati numericamente inferiori alle donne.

La donna “moderna” ha perso un po’ di quella magia “ancestrale” che le derivava dalla sua unicità rispetto al maschio, che anche per questo la rispettava? La parità dei sessi, insomma, secondo lei ha nuociuto in qualche modo al mistero femminile?

I misteri sono scomparsi tutti. Apparentemente. C’è stato un appiattimento dato dall’illusione che la scienza ci possa spiegare tutto. Infatti è così, solo che bisogna intendersi su ciò che è veramente scientifico. Spesso per pensiero scientifico si intende pensiero materialistico che non è certo l’unico metodo di indagine possibile. Ci sono donne che ancora mantengono un contatto con lo spirito del mondo e della natura, che usano quella particolare sensibilità dell’essere femminile derivata dalla familiarità con la generazione della vita. Se vogliamo chiamiamola magia io parlerei piuttosto dello sviluppo particolare dei sensi e della percezione in genere. Io direi che ieri la donna veniva rispettata a patto che stesse al posto suo. Oggi è temuta perché invade gli spazi tradizionalmente ritenuti maschili; il problema rimane: qual è il posto della donna, e quale quello dell’uomo?

Cosa c’è di uguale e cosa di diverso fra le donne di venti anni fa e quelle di oggi? Sono ancora quelle donne che affascinavano D.H. Lawrence, “con la schiena dritta e i pugni duri”?

Certamente in Sardegna è così. Noi sarde siamo orgogliose, a volte troppo…

Quali sono i suoi progetti in corso e quelli futuri?

Continuare ad occuparmi della differenza di genere, adesso sono alle prese con il progetto Deinas (oracoli) insieme a Rita Atzeri del Crogiuolo. Stiamo divulgando nelle scuole in questi giorni, i risultati di una ricerca etnografica realizzata sul campo da Marco Lutzu e curata dalla società Sarditinera per la Provincia del Medio Campidano. Questo progetto intende avvicinare i ragazzi alla conoscenza della poesia estemporanea in lingua sarda e prevede da parte mia(insieme a Simon Balestrazzi) anche la realizzazione di un disco con la riproposta di alcuni brani musicali in una rielaborazione personale.

Che messaggio vorrebbe fosse colto dai lettori del suo libro?

Vorrei che si considerasse il passato con obiettività recuperando ciò che ancora ci può essere utile, e in particolare che le donne ragionassero sulla differenza di genere accettando la loro specificità. Auspico che la donna coltivi la sua sensibilità particolare in senso sociale per continuare ad essere in modo attuale un esempio nella cura del mondo.

Tornare a vivere e lavorare in Sardegna, studiarne le tradizioni, sperimentarne le possibilità espressive: tutto questo ha influito positivamente sulla sua creatività? E quali differenze ha trovato rispetto alle esperienze fatte “al di là” del mare?

Tornare qui è stata una tappa obbligata del mio personale percorso di crescita. Lo studio delle tradizioni mi permette di prefigurare nuove prospettive per il futuro della Sardegna e non solo. Mi ha dato un grande impulso creativo anche se non sempre quello che cucino trova appetiti adeguati. Forse al di là del mare c’è più appetito e maggiore spregiudicatezza. In Sardegna gli schieramenti di potere sono molto netti, ed io per scelta sono fuori da questi schieramenti.

Perché ha parlato solo delle donne sarde? Cosa le differenzia dalle altre che ha conosciuto?

Le donne sarde sono speciali perché la nostra società in genere che è molto conservativa, ci mostra sopravvivenze di comportamenti e di valori che altrove vanno scomparendo rapidamente. Per esempio l’attaccamento alla terra e l’interesse per la ritualità.

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Di Redazione (del 28/02/2011 @ 01:22:44, in Interviste, linkato 1245 volte)

Da cosa nasce l'idea del romanzo “Vita e morta di Ludovico Lauter”?

Ho trascorso un anno intero a Cala Liberotto. Lavoravo a Nuoro e viaggiavo in macchina ogni giorno. Avevo molto spazio, e la libertà di pensare. Mi è venuta in mente questa storia in modo molto naturale ed è stato molto bello scriverla. Desideravo provare a ricreare un intero mondo, con molti personaggi, intrecci complessi, emozioni, dolore, odio, amore, pietà. Volevo lasciare completo e libero sfogo alla fantasia. L’occasione non poteva essere sprecata.

Quali sono gli autori che l'hanno maggiormente influenzata?

Senza dubbio Elsa Morante e Thomas Mann sono le presenze più esplicite di questo libro, sono quasi dei fantasmi che inseguo e coi quali provo a giocare. Credo sia molto importante avere modelli alti, aspirare a grandi cose, altrimenti si rischia di accontentarsi di piccoli fallimenti. La letteratura comporta un certo fattore di rischio. Bisogna mettere in gioco grandi cose. Oltre a questi due magnifici scrittori ho una venerazione per “Il giorno del Giudizio” di Salvatore Satta, per me uno tra i libri più belli che siano mai stati scritti. E poi George Orwell, Joyce Carol Oates, Coetzee, Natalia Ginzburg, Alberto Moravia, Kafka, Soldati, Annamaria Ortese. Non c’è un filo logico, solo un grande amore per la lettura. L’anarchia nei gusti letterari è una grande risorsa. Alcuni scrittori diventano un modello che si cerca di imitare, altri restano una controparte irraggiungibile.

Cosa rappresenta per lei la figura di Ludovico Lauter?

Il mostro dell’ambizione, il narcisismo che chiude gli occhi al mondo. Ma anche il mostro che bisogna evocare ( e poi sopprimere) per poter creare un romanzo ambizioso. Vita e morte: vita della letteratura, morte del narcisismo. Bisogna creare un Ludovico Lauter, lasciarsi trasportare da lui, ma poi saperlo uccidere prima che ci rovini.

Come si pone invece verso la più controversa figura femminile del romanzo, Giulia, madre di Lauter? Giulia è una donna che ama l’arte per l’arte, senza secondi fini. Tuttavia è lei la prima colpevole del narcisismo del figlio. È la persona che lo ha rinchiuso nel suo piccolo mondo, un mondo nel quale contava solamente il loro immaginario. Lei è, per molti aspetti, una specie di selvaggia, fragile, tenera, ma anche Giulia è egoista, come il figlio. Anzi è il modello, la fonte dell’egoismo del figlio.

Che significato ha, per lei, la scrittura?

È innanzitutto un piacere enorme, la possibilità di migliorare la propria vita, acuire la propria sensibilità. Fare, sognare e pensare cose che normalmente non potremmo raggiungere. Per questo a me piace la letteratura un po’ sopra le righe, quella che ti fa vedere le cose dall’alto, o dal basso, ma mai al livello esatto della realtà. È strano, ma è proprio uscendo dalla realtà che la letteratura permette di innalzare il livello di comprensione della vita. La letteratura è per me, innanzitutto, amore per la vita, voglia di vivere.

Ha in progetto nuovi lavori?

Ormai ci avviciniamo all’uscita del secondo romanzo. È passato quasi un anno da Ludovico Lauter. Il secondo libro sarà ancora pubblicato dal Maestrale e sarà molto diverso dal primo. Entro il 2008 poi Gallimard pubblicherà in Francia “Vita e morte di Ludovico Lauter”.

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Di Redazione (del 25/02/2011 @ 23:07:07, in Recensioni, linkato 1253 volte)
Sa faina literària de Francu Pilloni est beni matuca cun d-una bella pariga de lìburus in sardu e in italianu puru. In cust’òpera noa paricis stòrias currint in su contai de su lìburu po nci torrai, che arrius a mari, totus a su contu de Arega Pon Pon, sa protagonista. Su contu nci ferit fintzas a Amèrica, de susu e de giossu, ndi tòrrat a Casteddu e nci imbatit a una bidda cali si siat a giru de su Monti Arci. E si est giustu e bellu chi is contus in sardu no fueddint sceti de cosa sarda, s’est pràxiu meda chi in custu traballu Casteddu puru nc’apat tentu parti. Contus casteddajus gei nci nd’at ma sa ‘Tzitari’ iat a podi tenni una parti prus manna puru in sa literadura sarda e at fatu beni Pilloni a ddi torrai su logu chi ddi spètat. Seus tra Casteddu de Susu e sa Marina, aundi is poetas si funt chescendi ghetendinci a terra billeteddus cun fueddus scarèscius chi cròsant apari, e a Plàcidu, s’atori printzipali, ddi incapìtat de atobiai a una stràngia chi nci ddu pòrtat a unu logu mai biu e mai connotu. In su interis Arega Pon Pon, piciochedda disdiciada allomingiada Pon Pon po dda stroci, s’agàtat a sola a s’acabu de su mundu, chi est spaciau cumenti no s’emus a abetai mai. Su contu inghìtzat de un’acuntèssiu malu, de una violèntzia e de una morti ma cumenti acostùmat a acadessi, de sa morti etotu ndi tòrrat a nasci sa vida e a Arega mancai malassortada, ddi tòcat a ndi torrai a pesai totu s’umanidadi, finas gràtzias a unu gioghitu nou chi at abritiau impari cun su fillu. Sa famìllia s’amànniat, issa cun Gianu, su fillu, sighint a fai atrus fillus e is fillus aici etotu, una tzivilidadi noa si ndi tòrrat a strantaxai a bellu a bellu, torrendi a imparai totu su chi serbit po si campai. Aici sa vida tòrrat a nasci, òminis e fèminas ndi tòrrant a preni su mundu e Arega Pon Pon benit a essi s’ajaja manna de su mundu nou. Pilloni est unu scridori capassu, chi scit contai e tenit cosa de nai, duas calidadis chi iant a depi caminai sèmpiri paris po fai literadura bona. Sa prosa est sciuta, praxili e fintzas spassiosa candu ddi dexit. Sa lìngua est unu campidanesu literàriu chi s’autori connoscit beni e fatu fatu oberit a is fueddus e a su spìritu de su sardu marmiddesu, colorendiddu de coloris suus particularis chi dd’arrìcant e si ddu faint parri ancora prus biatzu. Cosa chi si praxit meda, chi in d-una standardizatzioni literària ddui siat ancora su logu po is scioberus personalis, po sighiri a amanniai una literadura chi oindi’ no si parit prus aici pitica.
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Di Redazione (del 25/02/2011 @ 23:03:40, in Editoriale, linkato 1326 volte)

1.0. Pensende a su chi apo a iscrier no isco si fagher autocrìtica o una dinùntzia. Pro s’autocrìtica, prus chi su chi apo iscritu e nadu, mi tirat su tonu chi apo impreadu: «un’òpera est bona cando est arte, e custu non b’intrat cun sa gramàtiga de sas limbas»! Pro sa dinùntzia, mi tirat su chi mi ant fatu creer: «su romanzu in sardu est una raridade; tando, mèngius de ocupare•si de sos sardos chi iscrient bonos romanzos, mancari in italianu»!

1.1. Est beru, un’òpera est bona cando est arte e non b’intrat cun sas limbas, ma finas sas òperas artesanas balet sa pena de las istudiare, ca b’intrat meda cun s’estètica; e sa limba, cun o sena gramàtiga, in literadura b’intrat semper: cando parfat chi non bi siat, est ca sa limba de cudd’autore fiat gai arta e profunda dae resurtare imbisìbile, a sicomente s’ossìgenu. Imbisìbile, sena sabore, però netzessària. In àteras òperas, imbetze, sa limba si bidet, est gai presente dae esser issa parte manna de s’òpera: e tando sa limba resurtat che abba: mare de beranu, mare de ierru, mare de note, pruja, abba de flùmene, abba de nie. B’at òperas in ue sa limba est gai presente dae resurtare sa parte prus manna, e duncas prus bella, o prus dèbile, che abba de ludu. Duncas, custa est s’autocrìtica: no aia cumpresu chi sa limba sarda est galu orale e totu sas òperas iscritas in sardu ant a pretzisare sa limba (autodidata) de sos autores issoro. Est male, custa cosa? Est male chi sos narradores e sos poetas sardos, cando si ponent a iscrier lu fatant dae autodidatas, dae iscritores sena mudellos teòricos fortes, sena gramàtigas e sena ditzionàrios atzetados e cumpartidos dae sa generalidade de sos sardos? Sisse. Est unu dolu mannu, ma sos iscritore non d’ant curpa peruna. Su neghe est de sa pulìtica italianista, da sa farta de una pulìtica limbistiga sana, est a narrer de unu bilinguìsmu modernu, in ue chie cheret istudiat s’italianu, chie non cheret istudiat su sardu e su bilinguìsmu perfetu est cosa de chie li sirvet pro traballiare o ca li piaghet.

1.1.1. Acabu de s’autocrìtica: un’òpera iscrita in sardu l’apo a lègere cunsiderende prima su nivellu de sardu impreadu, e a pustis solu sa calidade artìstica, ca antis bisòngia de educare su sentidu estèticu. Sa cale cosa non gheret narrer chi si unu libru est feu, iscritu in sardu si faghet bellu. Prus a prestu chi unu libru feu, iscritu in unu bellu sardu, potat tener carchi pàgina de antologia, de cuddas ùtiles pro imparare a iscrier bene. E custu, in dies de oe, no est paga cosa.

1.2. Passende a sa denùntzia, est ora de l’acabare de amisturare sa polìtica istatale cun sa polìtica culturale, s’istrutzione iscolàstica cun s’istòria de Sardigna, su bene pro su mercadu editoriale cun su bene pro su pòbulu de sa natzione sarda. Chi sa Sardigna siat una regione de s’istadu italianu est unu fatu, chi s’iscola de sos minores nostros siat totu italiana, un’àteru ancora, chi meda sardos si pensent che italianos antis che sardos est beru, a sicomente b’at sardos chie si abirgonzant d’esser sardos. Ma custu est su sentidu de sa modernidade, non su sentidu de sa Sardigna. Est normale chi chie cumandat pedat e chie est teracu ponzat s’àinu in ue cheret su mere. Su chi no est normale, su chi no est pretzisu, est de si sentire che teracos e de lo atzetare cuntentos. Ite gheret narrer chi un’iscritore chie pùbricat in Torino cun Einaudi iscriende in italianu est un’iscritore sardu: 1. ca est nàschidu in Sardigna? 2. ca b’at postu un’ambientatzione sarda? E tando? Fradile meu est nàschidu in Londra ma no est ingresu e sa limba de Shakespeare mancu l’ischit faeddare. E deo apo ambientadu unu contu in sa luna e, finas si so lunàticu, non seo unu selenita. O fortzis est prus sardu s’iscritore chie, iscriende in italianu, pùbricat cun un’editore isolanu? Non brullamos. Custas sunt etichetas de moda oe, in tempus de globalizatzione ètnica, in ue si non ses ètnicu ses un pòeru imbisìbile. Tando, chie girat su mundu, mancari dae domu sua clichende in internet, lu connoschet bene custu fenòmenu globale in ue sos pòeros de sa terra esistint a partire de s’identidade locale; su rumenu, su senegalese, su pakistanu e finas su sardu, un’apena prus a subra de su “terùn”, chi fiat troppu genèricu. Cuddos sunt sos etnicamente perillosos, ca sunt o fiant extracomunitàrios, nois, finas si semus prus pagu esòticos che issos, damus s’avantàgiu de non poner perillu sotziale perunu, ca si nono sos amigos de Berlusconi e de Briatore non bi benint prus in s’istiu.

1.2.1. Acabu de sa dinùntzia. Chie si giustificat nende chi iscriet in italianu e non in sardu ca gheret «faeddare a su mundu», istat faulende, ca si su contu est de incuntrare su nùmeru màssimu de letores, tando at a iscrier in Giaponesu, ca sunt sos chie de prus legent in su mundu, opuru in ingresu, ma solu pubrichende cun un’editore mannu, ca sos minores tenenent distributzione locale ebbia. Dae ùrtimu, in ispagnolu, ma pubrichende in Barztellona pro una multinatzionale chi distribuat in Ispagna e in Amèrica umpare. Un’editore italianu normale, de prima imprenta non tirat prus de milli millichimbenghentu còpias, pretzisu pretzisu che unu bonu editore sardu chie ti publichet in limba sarda. Sos sardos chi iscrient in italianu est ca sunt intalianos, italianos ebbia. Si poi lis sutzedit chi nende•si iscritores sardos lis resurtat prus fàtzile otener crìticas e recentziones, custu non b’intrat cun sa sardidade, ma cun s’indùstria culturale. Giustificare•si nende chi emmo, s’òpera già si l’aiant pensada in sardu, ma no ischende in cale sardu la “normalizzare” si sunt passados a s’italianu, est un (in)boluntàriu atu de sutamissione a su mere italianu; ca si sa giustificazione fiat giusta, sa limba in sa cale passare sa pubricatzione de su contu, fiat s’ingresu, o s’ispannolu, o su frantzesu, limbas de comunicazione internatzionale manna.

1.2.1.1. Pro l’acabare de su totu cun sa fàula de sa literadura sarda iscrita in italianu, namus su chi s’imparat sa prima die de lezione de literadura arrividos in prima mèdia: onzi literadura est ligada a sa limba sua; cando una literadura natzionale si manifestat in una limba de un’àtera nazione, si nd’at a cunsiderare s’istòria; pro nàrrer, sa literadura de Argentina est in limba ispannola, ma non est literadura de Ispagna, est argentina ebbia. Tando, sa literadura sarda est sa chi est iscrita in sardu e in sas àteras limbas de Sardigna non de un’istadu. Sa literadura fata in limba italiana, mai s’est fata pro sa natzione sarda ma sempre pro sa natzione italiana, tando no est literadura sarda, ma literadura italiana iscrita dae sardos. E finas su chi sos aligaresos amus iscritu pensende a su pùbricu catelanu, no at a esser cunsiderada literadura sarda. Finas sì, puliticamente, at a esser de importu mannu de cunsiderare aligaresos, tabarkinos e gadduresos, sardos de dòpia etnia: sardu-catelanu, sardu-lìgure, sardu-corsicanu.

2. 0. Poi de sas (auto)crìticas ant a bener sas prupostas e bi nd’ant meda, tocat de las definire e de las cumpartire. Cumintzende dae sa limba de sos sardos finas a cunsiderare su cànone literàriu sardu. E sunt temas importantes, pro onniunu bi gheret unu libru etotu. Inoghe nde podimus sinnare nessi su tìtulu.

2.1. Sa limba de sos sardos est una limba chi s’est sarvada in sos sèculus gràtzias a sa fortza de s’oralidade sua. Che limba de iscritura su sardu tenet pagos annos de bida. Sos condagahes sunt “registratziones” de faeddos, sos poemas de su chimbe e seteghentu sunt notas pro una letura a boghe prena, o dae s’altare o dae su palcu de sos cantadores. Sas meda òperas de s’otighentu sunt “registratziones” poèticas de su chi si cantaiat e contaiat. Totu òperas chi si sunt torradas libros de autores in su noeghentu solu, cando nois puru amus chèrfidu tener sos “clàssicos nostros”. In cuddu sutasistema literàriu, fatu de mèmorias cuidadas pro su tempus benidore, e non de iscrituras pro sos letores cuntemporànios, s’idea de tener una “koiné”, a su mancu ortogràfica, resurtaiat una cuntraditzione, ca sos curadores e sos chircadores fiant interessados a totu sos aspetos secundàrios de sa literatura orale nostra: non s’arte e sa poètica, ma s’antropologia e sa tradizione. Tando, prus su faeddu fiat “diferentziante”, mèngius fiat pro su chircadore. Pro su letore su problema non bi fiat mai, ca umpare a sa boghe de su cantadore e/o contadore, semper bi fiat sa tradutzione. Nende•lu cun prus craresa, s’idea de una limba sarda, sa matessi pro totu sos sardos, est una idea noa, chi, puliticamente, non tenet prus de una barantina de annos e chi non est atzetada galu dae totu sos sardos, nemancu dae cuddos chi già la faeddant e la iscrient sena lu gherer. Iscurtare duos iscritores sardos chi brigant pro una “T” de prus o de mancu, o pro si si at o nono de indicare s’elisione cun s’apòstrofo est cosa de non lu creer. Sa limba chi si faeddat in carrela non est sa matessi limba chi si iscriet in su papiru, e brigare pro un’àtzentu curtzu o longu cando est ora de fagher Sardigna a totus umpare, est s’evidèntzia de un’istadu de autofolclorizatzione avantzadu: su chi est de importu est sa fonètica istudiada pro escludendum: custu puru est sardu, ma custu non est de bidda mia. Prus chi brigas literàrias, chi est su normale intre iscritores, parent peleas intre Pro-Loco: benide a sa fonètica mia chi est ùnica in su mundu. E custu, mancari annos de prèmios literàrios e de cungressos a pizu de sa limba l’apant acraradu chi sa fonètica est una cosa, sa limba iscrita est un’àtera e sa literadura un’àtera ancora.

2.2. Ma fortzis, sos iscritores sardos chi bi creent de a beru, si aiant de arrebellare a cuddos prèmios e a cuddos cungressos in ue si prèdicat s’immobilidade e bisu e pes abbaindant semper e solu a su tempus coladu. Comente insinnat Walter Benjamin, amus a abbaidare daesegus ma caminende a daeinanti. A la finire cun sos prèmios de poesia in ue si podet narrer poeta un’òmine chi in sa bida sua at iscritu una poesia sola; a l’acabare cun sos prèmios de narradiva de unu contu solu e possibilmente autobiogràficu. Sos prèmios ant a esser normales: pro una sìlloge, mìnimu 25 poesia peròmine; pro su romanzu, mìnimu 140 pàginas; pros su contu, mìnimu deghe contos peròmine; pro su teatru, mìnimu un’òpera chi representada duret un’ora; pro sos libros de literadura, in cale si siat barietade de sardu, ma regularmente pubricados e mai premiados antis. Sa prus parte de sos prèmios chi esistint como, ant de si torrare su chi realmente sunt: festas de sa poesia e de sa narradiva in limba sarda. Tando, cumbidamus una mesa doighina de autores chi sa giuria de su prèmiu cunsideret representativos e los fatimus lègere a boghe prena, e poi cumbidamus totus sos chi lu gherent fagher de nde pigare a palcu e de si proare sa valentia issoro, legende sena filtros pro su pùbricu presente. Chie est prus bonu, si est bonu, lu detzidet s’agradessimuntu de sa gente in “sala” chie lu prèmiat cun s’aplaudimentu Sos autores de a beru, non sos chi nos ant cherfidu contare sa bida issoro, ma sos chi ischint contare ca contare est s’arte e s’impreu issoro, ant a fagher s’isfortzu de si sustituire a sos crìticos e a sos istoriadores, ca s’analizu de sa literadura sarda est deficitàriu meda.

2.3. Ischimus meda cosas de sa poesia in sardu, ma sos autores connotos non sunt prus de una deghina. Pro lu esemprificare, non b’at istudios cumparativos intre sa forma de poetare de sos poeta de bidda e de tzitade, de sos de Campidanu e de sos de Logudoro, de sos chi ant fatu poesia in su sentidu prenu, e de sos chi ant utilzadu sa poesia non pro “poetare” ma pro “narrare” contos, fàulas e romanzos mantenende sas rimas. Non b’at istùdios chi analizent sas formas de contare orale sardu in sentidu literàriu. Totu su chi ischimus de contàscias, fàulas e paristòrias nos benit dae sos istùdios de glotologia, de antropologia, de folclore e etzetera. Ma est evidente chi una fàula narada oe dae mannai e chi resurtet sa matessi iscrita dae Ramon Llull in su sèculu trèighi, non si podet esser “sarvada” ca fiat su destinu sou, ma ca est intradada in sos repertòrios de sos mastros narradores de Sardigna. Tando, sas fàulas, in totu sas manifestatziones issoro, ant a esser cunsideradas che parte de sa literadura sarda e, parte manna meda in sa espressione orale sua. Una chirca chi non est istada fata in funztione literària ma che at produidu cantidade meda de libros de fàula pro pitzinnos casi semper in italianu. Làstima chi non semper cuddos libros siant bellos, e làstima chi semper sunt libros traizinos, ca sas fàulas sardas, comente sas fàulas de totu su mundu, non sunt pro pitzinnos; sas fàulas incadenadas solu sunt nàschidas pro a issos, comente cudda de Comare Pulighita.

2.4. B’at poi de analizare totu su “presente”: sos romanzos premiados in su Casteddu de sa Fae dae su 1982 a oe; sos romanzos premiados in su Deledda; sa cumparazione de sos narradores premiados pro unu contu a a sola, e sunt prus de 200, e sos poetas premiados in 50 annos, e sunt prus de 1000; b’at de istudiare s’òpera teatrale de una chentinaia de dramaturgos, casi semper connotos in sas biddas issoro ebbia, e sos romanzos e sos libros de contos de un’àtera chentinàia de iscritores ancora. B’at a fagher un’istùdiu mannu chi permitat de cumintzare a pensare a unu cànone, un’estètica, chi nos ponzat in sa normalidade de totu sas literaduras: unas lìnias interpretadivas de s’identidade (dae s’oralidade, a s’autodidatismu, a un’editoria normale), de sos clàssicos (dae s’edade de semper a oe, segundu poesia, narradiva e teatru) e de sos contemporànios (sena nde orvidare mancunu); totu legidu e interpretadu segundu sas lìnias de analizu de sa sardìstica, e non de s’italianìstica.

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